LE MAFIE NELL’ERA DIGITALE. SE LA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA DIVENTA SOCIAL

I social sono la nuova frontiera in cui la criminalità organizzata trova estimatori tra i giovani. Il mafioso diventa personaggio e la sua vita un reality costruito sull’estetica del potere, mentre l’algoritmo normalizza nella logica dello scroll. Il Rapporto Le mafie nell’era digitale, nel ciclo Minori e mafie di Antimafia Pop Academy, con Libera e CSV Lazio

di Giorgio Marota

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In una società nella quale il reale e il virtuale spesso si sovrappongono, e in cui la comunicazione non è più broadcast, cioè da uno a tanti, bensì socialcast, quindi da tanti a tanti, proliferano i nuovi metodi digitali della criminalità organizzata. Sì perché la mafia non è più solamente pizzo, spaccio e omicidi per le strade: i social network stanno diventando la nuova frontiera nella quale trova estimatori tra i giovani, mostrandosi attraente. È la tesi che sta alla base del rapporto Le mafie nell’era digitale, che Marcello Ravveduto, professore di public and digital history dell’Università di Salerno, ha presentato sabato a Roma nell’ultimo appuntamento del ciclo Minori e mafie, organizzato da Antimafia Pop Academy in collaborazione con Libera e CSV Lazio.

Mafie nell’era digitale: personaggi, in un reality dove tutto ha senso e giustificazione

Il punto di partenza della ricerca è che oggi abbiamo dei veri e propri prosumer, persone che consumano e producono contenuti che veicolano cultura e mentalità mafiose, costruendo nuovi orizzonti di riferimento. Molte tra queste non appartengono fisicamente alle organizzazioni, eppure ne condividono i “valori”. Per loro gli studiosi hanno coniato il termine “mafiofili”: sono quelli a cui piace lo stile di vita che la mafia propone. Siamo alle prese con un tentativo riuscito di auto-narrazione. Un tempo a raccontare le mafie erano solo i giornalisti, gli scrittori, i fotografi, i registi, gli sceneggiatori e gli attivisti, «oggi grazie alle piattaforme digitali i mafiosi sono in grado di raccontarsi da soli. I social hanno liberato un vero e proprio processo di comunicazione», ha spiegato Ravveduto. È l’ideologia dell’autentico a conquistare i ragazzi: venire dalla strada, fare soldi a palate, essere circondati da belle donne e vivere nel lusso, il tutto senza studiare o lavorare ma semplicemente sporcandosi le mani e conoscendo le persone giuste, stanno diventando i nuovi modelli per compiere la scalata sociale. La persona mafiosa diventa così personaggio, perché conduce lo spettatore nel proprio reality show, dove tutto ha un senso e trova giustificazione. «Loro ti dicono “noi siamo diversi da voi, questa è la nostra vita”. È post-verità e non ti stanno mentendo, perché credono veramente in questo mondo rovesciato, dove i nostri disvalori sono i loro valori e la violenza è centrale nelle relazioni», ha aggiunto l’esperto.

mafie nell'era digitale
«I media sono l’unico strumento più forte delle mafie perché per starci e avere successo devi rispettare le regole del gioco. Ecco perché l’antimafia social si fa combattendo con le stesse armi»

L’algoritmo normalizza nella logica dello scroll

È l’estetica del potere a fare la differenza. L’utilizzo di determinati marchi, le acconciature, le pose nei selfie e tante altre dinamiche parlano senza bisogno di parole di appartenenza a un determinato gruppo. I camorristi, ad esempio, lo fanno da sempre, sentendosi una élite della criminalità: hanno semplicemente adattato questa loro comunicazione non verbale al virtuale. Il brand mafioso viene così presentato sui social come un vero e proprio “lovemark” e i suoi promotori sono, per l’appunto, i mafiofili. Loro si muovono come degli influencer navigati, ma a differenza di quelli tradizionali non rappresentano la vetrina per il brand che sfoggiano, bensì lo utilizzano per dimostrare al mondo quanto sia potente l’organizzazione verso la quale tendono. Nella pubblicità si parla generalmente di chiamata all’acquisto, nella mafia è invece ricerca di consenso. Quello che alla gran parte del pubblico può apparire kitsch, ottiene un consenso trasversale. Basta leggere i commenti ai post o le reazioni a quei video che sfruttano la cultura popolare tra canzoni neomelodiche, dialetti e riferimenti religiosi: noterete più apprezzamenti che critiche. L’algoritmo non fa altro che normalizzare il processo nella logica dello scroll; in questo modo le piattaforme come Instagram e TikTok mostrano il trash mafioso e subito dopo una pubblicità, una video sul calcio, un discorso di un politico e il passaggio da “qualcosa che è fuori da me” a “fruisco anche io di questi contenuti” risulta immediato.

Da carnefici a vittime innocenti

I video delle scarcerazioni, le riprese live degli arresti, la vita delle persone ai domiciliari, i reel delle mogli che vanno a trovare i mariti in carcere, l’utilizzo nei post di emoji come la catena (rappresenta il legame con il clan), il leone (il capo), la siringa (la vendetta), il ninja (la lotta armata) e il cuore azzurro (il sangue blu della nobiltà), ma anche i video accompagnati da canzoni con testi che parlano di bambini pronti a morire e di polizia da combattere, oggi affollano i network. Sono esempi di diffusione di cultura mafiosa anche i tanti profili dedicati a Emanuele Sibillo, il capo della “paranza dei bambini”, ucciso nel 2015 a 20 anni. Es17 è diventato un hashtag che diversi rapper dell’hilterland napoletano utilizzano nei loro nomi e che i giovani, anche non mafiosi, adottano come stile di vita, copiando il taglio di capelli e la barba del boss e pubblicando contenuti che ne omaggiano la memoria. E mentre i figli dei mafiosi cercano sempre più spesso di riabilitare i padri, parlandone sui social non come dei criminali, ma come genitori amorevoli e presenti, prolifera pericolosamente anche la retorica delle vittime innocenti, che i clan hanno rubato all’antimafia. Si riafferma con forza pure il patriarcato, in contesti dove le donne sono succubi, ma anche generatrici di cultura criminale; spetta proprio alle femmine, spesso incensurate, tramandare certi valori ai figli maschi mentre i padri sono in galera o peggio ancora dopo che sono stati ammazzati.

Ravveduto: «L’antimafia social si fa combattendo con le stesse armi»

Secondo l’esperto, per passare dai contenuti mafiofili a quelli mafiosi in senso stretto, dove i boss dialogano con i loro affiliati parlando in codice nelle dirette Facebook, i “soldati” mostrano le ferite dei conflitti a fuoco o gli appartenenti a diversi clan si scambiano minacce e offese come dei comuni leoni da tastiera, bisogna però passare da una sorta di filtro. Insomma, è necessario scavalcare la barriera di contenuti dei mafiofili e andare oltre. Le persone comuni, probabilmente, non accederanno mai a questo genere di post, eppure sui social abbondano. «I media sono l’unico strumento più forte delle mafie – la conclusione di Ravveduto durante la presentazione del Rapporto Le mafie nell’era digitale – perché per starci e avere successo devi rispettare le regole del gioco, altrimenti non sei visibile. Ecco perché l’antimafia social si fa combattendo con le stesse armi, essendo attivi sulle stesse piattaforme e facendo contenuti opposti».

LE MAFIE NELL’ERA DIGITALE. SE LA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA DIVENTA SOCIAL

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