MAI DATI. OBIEZIONE DI COSCIENZA: COME STA LA LEGGE 194?

Un’indagine di Chiara Lalli e Sonia Montegiove fa luce sulla situazione dell'interruzione volontaria di gravidanza in Italia. Chiara Lalli: «Del Lazio abbiamo i numeri completi, sebbene aggiornati al 2020»

La recente sentenza della Corte Suprema Usa sull’aborto costringe il nostro Paese a chiedersi come sta la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza e come viene applicata. Tuttavia della legge 194, che risale al 1978, non abbiamo i dati aperti e, quindi, non possiamo sapere dove e come viene applicata, dove sarebbe più urgente agire e quanto è disponibile l’aborto medico (RU486). Anche l’ultima relazione del Ministero della Salute ci dà numeri chiusi e aggregati per regione, che risalgono al 2020. L’indagine Mai Dati, Dati aperti (sulla 194) – Perché sono nostri e perché ci servono per scegliere (Fandango Libri) è nata con questo obiettivo: Chiara Lalli e Sonia Montegiove hanno cominciato a mandare accessi civici generalizzati alle singole strutture per porre un problema e chiedere di aprire i dati al Ministero della salute.

Sonia, com’è nato Mai dati?

«Mai dati è nato dal desiderio, condiviso tanti anni fa anche con la rete di donne Wister, di realizzare una semplice mappa che, scelto un ospedale, potesse mostrare il numero di ginecologi presenti e quanti di questi fossero obiettori. Apparentemente un’idea semplice, ma impossibile da realizzare tanti anni fa come oggi, visto che i dati necessari a realizzare una mappa come questa non sono disponibili (e non sono in formato aperto). Da questo non voler credere che non fosse possibile avere dati su un servizio tanto importante come quello di interruzione volontaria di gravidanza nasce la nostra inchiesta giornalistica, che ci ha portato a fare accesso civico generalizzato a tutte le strutture ospedaliere d’Italia chiedendo il numero totale e il numero di obiettori presenti nei propri ospedali e consultori.
Abbiamo chiesto, sollecitato, trascritto e rappresentato i dati che ci sono stati inviati (circa un 60% le strutture che hanno risposto) con l’obiettivo di far comprendere quanto la disponibilità e l’apertura dei dati sia indispensabile per analizzare e comprendere lo stato di attuazione della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg). Le mappe, i numeri, le percentuali che abbiamo raccolto sono il frutto di un lavoro giornalistico al quale nessuno dovrebbe sottoporsi. Lo abbiamo fatto con l’entusiasmo di chi crede che, mostrando quanto i dati possano riferire circa la possibilità di esercitare un diritto, si possano risvegliare le coscienze di tutti per poter pretendere che le Amministrazioni pubbliche non solo rispondano a specifica richiesta (come spesso purtroppo non fanno), ma si sentano obbligate a liberare dati in modo accessibile, aperto, fruibile da chiunque. Avremmo sperato di non scrivere una storia di accesso negato che continua con il silenzio del Ministero della Salute che non ha mai risposto, nemmeno ora, alla richiesta di apertura dei dati sulla 194. Avremmo preferito non ci fosse un Mai dati, ma è andata così».

Sonia, qual è la situazione in Italia sui centri in cui si eseguono le Ivg e su quelli in cui non si eseguono? E perché il significato dei dati è nebbioso se preso da solo?

«Dai numeri raccolti – che, ripetiamo fino allo sfinimento, sin dalla loro prima pubblicazione sono già vecchi e poco utili – sono emerse delle criticità che non si conoscevano prima: esistono in Italia ospedali e consultori che presentano un 100% di medici, anestesisti, infermieri o OSS obiettori. Esistono nel nostro Paese non obiettori che non effettuano Ivg, dato messo in evidenza da alcuni ospedali e che non compare, per esempio, nella relazione annuale ministeriale. Non è disponibile (nemmeno su richiesta, visto che anche in questo caso ci siamo rivolte al Ministero della Salute) un elenco ufficiale delle strutture sanitarie che effettuano interruzione volontaria di gravidanza e quelle che invece non la effettuano. Insomma, non abbiamo a disposizione i dati che ci servirebbero a capire se la 194 è applicata o meno. Nella relazione li abbiamo aggregati per regione, con una percentuale di obiettori media per regione. Quando sappiamo perfettamente che una donna che ha bisogno di eseguire una interruzione volontaria di gravidanza deve scegliere un ospedale cui rivolgersi e, nel farlo, potrebbe tornarle utile sapere qual è la situazione in quella struttura e non genericamente quella media di una certa regione».

Sonia, cosa manca all’Italia per far sì che i dati siano considerati un bene comune?

«Teoricamente all’Italia non manca nulla per far sì che i dati possano diventare bene comune. Eppure sono ancora troppo pochi i dati di qualità pubblicati in formato aperto. Il documento di valorizzazione del patrimonio informativo del Paese, pubblicato di recente dal Ministero per l’innovazione e la trasformazione digitale, ricorda che “I dati pubblici sono un bene comune e una risorsa del Paese in grado di produrre valore migliorando i servizi, creandone di innovativi e contribuendo a creare nuovi modelli di business, competenze e posti di lavoro”. Abbiamo il Codice di Amministrazione Digitale che stabilisce come i dati ​della pubblica amministrazione dovrebbero essere resi disponibili in formato aperto. Avremmo, insomma, tutto quello che serve – almeno a livello normativo – per avere più dati aperti, ma se si guarda al sito del Ministero della Salute i dataset presenti sono poco più di 50».

Eppure, ci saranno dati di pubblico interesse in ambito salute?

«Se pensiamo ai dati sulla 194, per come ci hanno raccontato che vengono prodotti e raccolti, sembra che si possano aprire con un meccanismo semplicissimo per averli aggiornati trimestralmente e per struttura ospedaliera visto che le regioni li trasmettono al Ministero tramite piattaforma, in formato quindi già digitale, con regolarità. Nonostante questo, i numeri vengono accorpati, rielaborati, cucinati e chiusi dentro una relazione in formato .pdf che non genera lo stesso valore che potrebbe generare un flusso aggiornato, aperto, leggibile e cucinabile da chiunque. Manca forse la volontà politica? Ci facciamo forse prendere dal timore che la pubblicazione dei dati possa far emergere criticità che altrimenti si possono nascondere più facilmente? A pensar male…»

Chiara, puoi parlarci nello specifico della situazione del Lazio?

«Del Lazio abbiamo i numeri completi, sebbene aggiornati al 2020: le strutture, il numero delle interruzioni della gravidanza, il numero dei ginecologi, degli anestesisti e delle professioni sanitarie non mediche e il numero dei non obiettori. C’è anche l’indicazione “punto Ivg” oppure “non punto Ivg” – in cinque strutture “è in atto verifica se punto Ivg” e quindi non si sa. Quello che sappiamo con certezza è che c’è un errore per le strutture di una ASL di Roma: il Sant’Anna non viene considerato come un punto Ivg, mentre gli aborti si fanno almeno dal luglio 2018 (o forse da prima ma saperlo non è facile). Le interruzioni volontarie delle gravidanze fatte lì vengono contate come Santo Spirito, con 662 interruzioni effettuate nel 2020 (che però non sono state eseguite al Santo Spirito ma al Sant’Anna). Il Sant’Anna è a via Garigliano, nel quartiere Trieste, tra Villa Borghese e Villa Ada. Il Santo Spirito è sul Lungotevere, vicino Castel Sant’Angelo. Distano circa 5 chilometri. Le domande sono molte ma avere delle risposte ufficiali non è facile. Da quando il Santo Spirito non è più punto Ivg? Perché questo cambio? Ed è solo una questione di burocrazia? Come facciamo a sapere se i dati delle altre strutture sono corretti? Il Sant’Anna è il punto di riferimento delle interruzioni volontarie della gravidanza della Asl Roma 1 ma formalmente non le fa nemmeno. Una mappa disegnata su dati in continuo aggiornamento sarebbe forse anche più facile da aggiustare se ci sono errori o cambiamenti. Il senso di una mappa disegnata su dati ufficiali è proprio quello di poter scegliere se andare al Sant’Anna o al Santo Spirito. Ma se le indicazioni sono sbagliate, quella mappa non ci serve a niente. Poi c’è Civitavecchia: nel file della Regione Lazio i non obiettori sono 4, è corretto ma impreciso. Infatti dalla risposta che ci hanno mandato sappiamo che su quei 4 non obiettori, solo uno è “non obiettore che esegue Ivg”. Infine, l’ospedale Grassi è indicato come a Roma e invece è a Ostia. Succede, ovviamente. È facile sbagliare gestendo tanti dati e molte informazioni. Anche per questo, lo ripetiamo, avere un sistema aperto ci permetterebbe di segnalare e di correggere via via, invece di tramandare errori e imprecisioni in un telefono senza fili infinito (e impossibile da correggere perché è impossibile sapere dove e perché si è sbagliato)».

Chiara, cosa significa che “i dati non sono freddi”?

«Spesso sentiamo ripetere la frase “i dati sono freddi”, ovvero non si possono raccontare storie interessanti attraverso i dati. E invece, come diceva un famoso economista, i dati ​sotto tortura parlano. Soprattutto quando sono ufficiali, non raccolti dal basso, ma certificati dall’Amministrazione pubblica che li detiene. I dati non sono freddi e basta con le storie di dolore infinito della donna che decide di interrompere una gravidanza. Perché non è questo che interessa chi deve esercitare un diritto e soprattutto non è questo che ci aiuta a difenderlo, visto che la recente sentenza della Corte Costituzionale americana ci ha ricordato che un diritto non è per sempre. Nemmeno quando lo diamo per scontato». ​

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mai datiMai Dati, Dati aperti (sulla 194) – Perché sono nostri e perché ci servono per scegliere

Chiara Lalli, Sonia Montegiove

Fandango Libri

Euro 15,00

MAI DATI. OBIEZIONE DI COSCIENZA: COME STA LA LEGGE 194?

MAI DATI. OBIEZIONE DI COSCIENZA: COME STA LA LEGGE 194?