METROPOLIZ LA CITTÀ DELLA LUNA

L'occupazione abusiva di una ex fabbrica di salumi nella periferia romana si è trasformata, grazie a 300 artisti, nel MAAM: il primo museo abitato del mondo

Volevano arrivare sulla Luna, ma hanno fondato una colonia lunare sulla Terra, che di crateri vuoti e buchi di memoria ne ha più di quanti ne lascerebbe una sassaiola di asteroidi. Palazzi abbandonati, hotel pericolanti, fabbriche aperte al vento e alla ruggine diventano per loro altrettante cavità lunari, nelle quali raccogliersi per provare a vivere, respirando l’aria indigesta di un’atmosfera inospitale, muovendosi al ritmo muscolare della gravità terrestre, in attesa di salpare verso un altrove più lieve e distante anni luce. Non sono alieni che hanno smarrito le coordinate di una galassia remota, sono italiani, rom rumeni, peruviani, marocchini, eritrei, ucraini, che hanno perso patria, casa e lavoro e che, sentendosi di troppo su questo pianeta ostile, preferirebbero raccogliere intere le loro diversità meticcie e spararle come un proiettile variopinto nella bianca pupilla della Luna. Era il 2011, ricorrevano sia i 150 anni dalla nascita di Méliès, colui che per primo diede un volto cinematografico alla lunga tradizione letteraria dei viaggi sulla Luna, sia i 50 anni dalla prima passeggiata umana fuori dall’atmosfera terrestre, ad opera del cosmonauta russo Jurij Gagarin. La conquista dello spazio extraterrestre, nel 1967, sembrava ormai talmente prossima che 91 Paesi ritennero necessario farsi firmatari di un trattato sulla gestione dello spazio extraatmosferico, nel quale la Luna figura come bene comune dell’umanità, giuridicamente libera da nazionalità, eserciti e proprietà privata. Qualcuno, in occasione di quei due anniversari, ebbe un’idea: «Costruiamo un razzo che ci porti tutti sulla Luna!» e i 200 occupanti abusivi a rischio sgombero, quegli alieni atterrati nel marzo del 2009 tra le lamiere di una fabbrica romana abbandonata da vent’anni, iniziarono davvero a prepararsi al decollo.

Non è Fantascienza, è Arte


Non è Fantascienza, è ArteSul cancello del civico 913 in Via Predestina a Roma sono saldate una trentina di cassette della posta, nomi italiani, slavi, sudamericani e arabi, indicano al visitatore di essere arrivato alle porte di Metropoliz, la città meticcia, un miracolo abitativo che da più di cinque anni resiste su una riva remota del raccordo anulare, raccolto negli immensi spazi di un ex salumificio Fiorucci. Varcato il cancello, un rigagnolo bianco di parole dipinte in molteplici alfabeti, conduce ai piedi di un razzo colossale, che da quell’improbabile rampa di lancio non è mai decollato, ma che resta al centro della piazza di Metropoliz come il dito che indica la Luna. L’essenziale per Giorgio de Finis e Fabrizio Boni, i due antropologi ideatori del progetto, nonché registi di “Space Metropoliz”, il documentario che lo racconta, non era raggiungere un favoloso obiettivo extraplanetario, per quanto metaforico volesse essere, ma realizzare, per quell’arcobaleno fragile di famiglie precarie, qualcosa di prodigioso che potesse ritardare l’eclisse di un inevitabile sgombero. Non voler riconoscere l’eccezionalità di ciò che è conseguito a quella follia carnevalesca significa fermarsi a guardare il razzo che arrugginisce e perde pezzi di lamiera al centro della piazza, anziché la densa selva artistica che ha preso a crescergli attorno. «Il telescopio, realizzato con fusti di benzina riciclati, è stato il primo oggetto d’arte regalato a Metropoliz», racconta Giorgio de Finis e spiega «l’artista Gian Maria Tosatti lo ha realizzato con la collaborazione degli stessi abitanti, e lo ha issato in cima alla torre più alta per aiutarci a guardare alla Luna: il luogo in cui volevamo arrivare». Dapprima diffidenti e troppo schiacciati dalla gravità dei propri bisogni primari per aver voglia di partecipare ad un gioco superfluo, gli occupanti hanno poi ospitato a Metropoliz le conferenze di artisti, astronauti e filosofi, che li hanno convinti ad alzare lo sguardo alla volta celeste e a riappropriarsi della naturalezza immaginativa del sogno. Nel frattempo, un esercito di artisti di strada romani, tra i primi Lucamaleonte, Hogre e Sten&Lex, trasformano i vent’anni di degrado incrostati sulle mura ciclopiche dell’ex Fiorucci in tele colossali per opere destinate a stupire.

Quando l’arte ha un ruolo sociale

La favela di Metropoliz si stava trasformando, a costo zero, nel primo museo abitato del mondo, e, da vero museo, ha assunto anche il nome: Maam, Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz. La sigla, che si allinea ironicamente agli acronimi dei musei istituzionali Macro e Maxxi, lancia una sfida e al contempo un’ancora di salvezza al sistema museale romano, sempre in bilico tra finanziamenti mancanti e sclerosi burocratiche. «Il problema di questi musei», sostiene de Finis, «non è la mancanza di soldi: lo dimostra il Maam, che non ha un solo euro, eppure viaggia al ritmo di 50 nuove opere ogni tre mesi». Al Maam lasciano il segno con più di 400 opere, 300 artisti provenienti da tutto il mondo, tra loro la berlinese Susanne Kessler con le sue gabbie intrecciate pensando a Guantanamo, glispagnoli Pablo Mesa Capella e Gonzalo Orquín con i 30 metri della loro “Cappella Porcina“, e il brasiliano Eduardo Kobra con il gigantesco ritratto, sulla facciata esterna dell’edificio, di Malala Yousafzai, l’adolescente pakistana vincitrice del Premio Nobel per la Pace. Dal mosaico arcobaleno, aderente, come una maschera fedele, al volto ancora bambino della giovane perseguitata dai Talebani, affiora uno sguardo umbratile, pieno di barbagli dorati che parlano di pace e accoglienza tra i popoli. Una lezione di convivenza multiculturale, una cattedrale d’arte in un deserto urbano, un monumento all’utopia che si realizza, un frammento di Luna, lo stesso che Fellini aveva visto cadere come un seme fluorescente al suolo terrestre: il Maam è tutto questo, ma è anche una proprietà del più potente costruttore italiano, Pietro Salini, che questo suo vasto possedimento intende riprenderselo, in barba a tutte le leggi lunari in materia di proprietà privata. «Uno dei motivi per cui abbiamo messo su questo meccanismo», spiega de Finis, «è che se si sgombera un’occupazione di 200 persone di cui 40 bambini, se va bene, hai un trafiletto di cinque righe su La Repubblica, che annuncia: “Bonificata l’area dell’ex Fiorucci”, come se ci fossero topi o zanzare. Se invece si butta giù con le ruspe il Maam, uscirà un doppio paginone, in cui una parte del mondo dirà che hanno fatto bene perché era un’occupazione illegale, ma l’altra parte griderà allo scempio barbarico». A noi scegliere da che parte stare.

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