MIGRANTI: LE FAMIGLIE ACCOGLIENTI SE LI SONO PORTATI A CASA

Le associazioni di famiglie che accolgono giovani migranti e rifugiati a casa loro sono una realtà: per aiutare, e dare un segnale contro il razzismo

«Sì, noi ce li portiamo a casa»: è questa la risposta orgogliosa di Antonella Agnoli, e delle famiglie accoglienti di Bologna, come quelle di tutta Italia, allo slogan tipico di chi attacca i migranti verso chi li aiuta, dicendo «portateli a casa vostra». Quello delle associazioni delle famiglie accoglienti è un fenomeno che è in atto da qualche anno in Italia. È una reazione naturale, una sorta di creazione di anticorpi, al clima di razzismo che si respira da qualche anno: impegnarsi con i fatti, in prima persona, e ospitare a casa propria alcuni migranti, per lo più ragazzi giovanissimi. «Io non faccio questo di mestiere, mi occupo di biblioteche, in particolare cerco di costruire biblioteche accoglienti», spiega Antonella Agnoli, dell’Associazione Famiglie Accoglienti di Bologna. «Cerco di coltivare utopie che ogni tanto si realizzano».  L’associazione è nata nel dicembre del 2018. La cooperativa con cui stavano lavorando Antonella e altre persone ha comunicato che tutta una serie di ragazzi stranieri sarebbero entrati nel «progetto incertezza» a causa del Decreto Salvini.  «Eravamo tutti preoccupati», ricorda Antonella Agnoli. «Ci siamo detti: dobbiamo fare qualcosa. Per qualche strano motivo siamo diventati subito molto noti in Italia».

 

famiglie accoglientiPrimo problema: la casa

Così le famiglie accoglienti hanno deciso di acquistare la pagina di un giornale nazionale. «Noi siamo quelli che se li sono presi a casa loro», era il testo dell’inserzione. Oggi ci sono famiglie accoglienti in tutta Italia, volontari che si prendono cura di ragazzi stranieri, associazioni che si occupano del problema abitativo.

Ma come è nata questa idea? Tutto è partito dall’iniziativa di trenta famiglie molto differenti fra loro, a livello sociale e culturale. «Noi siamo senza figli, abbiamo una casa grande in centro a Bologna», racconta  Agnoli. «Una famiglia era formata da una signora separata, la stanza della figlia che vive a Londra era libera, e lei voleva far convivere i figli con altre culture». «I ragazzi che sono arrivati sono ancora tutti a casa nostra», confessa Antonella. «Il ragazzo che sta da noi, arrivato a 16 anni, ci ha chiesto come prima cosa di fare teatro, per condividere esperienze con altri ragazzi, in contatto con altri mondi. Ora sta facendo l’università. Questi ragazzi hanno una cultura orale e si tratta di tenere conto della loro diversa capacità di apprendimento: hanno spesso imparato le cose a memoria e per loro leggere un libro è difficilissimo».

Ma perché i ragazzi non sono ancora usciti dalle case che li ospitano? «Il problema più grosso è trovare una casa», spiega Antonella. «Hanno anche trovato lavoro. Forse potrebbero trovare casa negli Appennini, fuori dalla cintura bolognese: ma poi non avrebbero modo di andare a lavorare». Infatti le famiglie accoglienti bolognesi sono presenti in quattro tavoli di lavoro con il Comune di Bologna, e il tavolo di lavoro principale è stato proprio quello sulla casa. È stato trovato un accordo con Banca Etica, un fondo di 10mila euro, grazie al microcredito. «Andremo sul mercato degli affitti normali, per non andare in contrasto con le case popolari e le graduatorie, e dobbiamo garantire sei mesi di caparra». Va detto che la gentrificazione non rende facile la ricerca di una casa, ed è un problema anche per gli studenti.

 

famiglie accoglientiAnche a Roma ci sono famiglie accoglienti

Le famiglie accoglienti sono presenti anche nel Lazio, a Roma: l’associazione si chiama ALI, che sta per Accoglienza Libera Integrata. Maddalena Grechi, la presidente, e Lodovico Mariani hanno una sensibilità e un’esperienza particolare, avendo lavorato nella cooperazione internazionale, e avendo avuto così l’occasione di incontrare migranti e rifugiati sia nei paesi d’origine che in Italia. «Ci siamo resi conto di un clima che stava iniziando ad inasprirsi nel 2017» ci racconta Maddalena Grechi. «Avevo avuto l’occasione di seguire un teatro fatto da rifugiati, dove c’era un ragazzo che aveva bisogno di un alloggio, e abbiamo deciso di supportarlo. È diventato un frequentatore assiduo di casa nostra: ci ha adottato lui. Ma è arrivato qua maggiorenne, fuori dal sistema di accoglienza. Aveva bisogno soprattutto di relazioni umane, qualcosa che di solito nel sistema di accoglienza non è previsto». «Dormiva spesso da noi, gli davamo un pasto da portare via quando non era da noi: non volevamo, almeno all’inizio, dare dei soldi» continua la presidente di ALI.
«Il rapporto è cresciuto, ha conosciuto la nostra rete di amici, è riuscito a inserirsi nel mondo del lavoro. Si è trattato di un rapporto di fiducia che ha instaurato soprattutto lui con se stesso. Ed ha iniziato da solo a pagarsi d’affitto». Così una serie di altre persone hanno espresso il desiderio di fare qualcosa di simile, chiedendo aiuto a Maddalena a Lodovico perché avevano più esperienza. «Con altri soci ci siamo interrogati e abbiamo costruito questo modello che è l’incontro tra due bisogni» spiega Maddalena Grechi. «Quello dei giovani migranti e rifugiati, che magari hanno un posto negli Sprar, ma non hanno reti sociali, e quello delle persone residenti nel territorio che, visto l’inasprirsi del clima sociale, avevano voglia di impegnarsi concretamente. ALI significa Accoglienza Libera Integrata. È libera, perché non pensiamo che le relazioni che nascono siano tutte uguali. C’è un bisogno di stingere relazioni, un bisogno di spendersi e noi creiamo occasioni di incontro. Se un ragazzo del Mali incontra una famiglia della Garbatella, starà a loro indicare come si strutturerà il rapporto, se sarà un incontro di due volte alla settimana, o due weekend insieme, magari nella casa in campagna».

 

famiglie accoglientiIn alcuni casi la relazione si struttura in delle convivenze, in altri casi è legato più al supporto nelle questioni legali, altre ancora nell’aiuto allo studio. Chiediamo a Maddalena se ci siano stati problemi, o reazioni negative, alla loro scelta. «Penso che tutto sia sempre legato alla conoscenza» commenta. «Il ragazzo che ci ha eletto a sua famiglia, la prima volte che andava e veniva da casa con le proprie chiavi, ha destato qualche diffidenza.  Era stato rubato qualcosa in giardino, e qualcuno ha detto: abbiamo visto un ragazzo entrare e uscire. Noi abbiamo detto: ma quello è nostro figlio». «Credo che paura e diffidenza siano naturali, ma anche figlie del clima che abbiamo respirato negli ultimi anni» riflette Maddalena. «Ma vedo tanti spiragli di apertura. Anche chi dice “prima gli italiani”, poi dice anche “ma io lavoro con un tunisino, lui è bravo, lui non c’entra”. È sempre l’ignoto che spaventa, ma quando si ha una relazione personale tutto cambia. È una di quelle esperienze in cui parti con l’idea di aiutare qualcuno, ma finisci per essere quello che viene aiutato, che è arricchito dall’esperienza». «Lo faccio anche per i miei figli» racconta la presidente. «E dove ci sono bambini il processo di integrazione è molto più rapido». Il lavoro più grosso è quello nei confronti del vicino di casa, di chi sta fuori dai progetti ma vede la realtà quotidianamente» aggiunge. Vogliamo mostrare, con le azioni e non con le parole, che una convivenza è possibile». È un percorso ricco di soddisfazioni. «Quelle più grandi sono quando capisci che i ragazzi si possono muovere autonomamente, quando raggiungono risultati» spiega. «Hanno alle spalle storie complicate, dolorose, traumatiche, e qui trovano ostacoli giganti nella burocrazia, è difficile avere in mano un documento, aprire un conto in banca, avere un contratto di lavoro regolare, prendere in affitto una stanza. Sono tutti traguardi che condividiamo con loro» conclude Maddalena.

 

A Parma studenti e stranieri in co-housing

Ma sono tante le realtà che stanno cercando di trovare soluzioni, soprattutto a livello abitativo. Tandem è un progetto del Ciac di Parma nato nel 2016. «In molti progetti legati agli Sprar ci siamo resi conto come la costruzione di legami significativi fosse rimasta un po’ sullo sfondo» spiega Chiara Marchetti del Ciac. «E abbiamo pensato che la costruzione di legami sociali tra rifugiati e italiani non potesse essere lasciata alla spontaneità e al caso». Parma è una città universitaria, ci sono molte persone che arrivano da fuori e non riescono a radicarsi nel territorio. «L’idea è stata quella di sperimentare convivenze e co-housing tra studenti e stranieri» spiega Chiara Marchetti. «Abbiamo utilizzato tre appartamenti in tre anni, ospitando più di 40 ragazzi che non hanno dovuto pagare niente». «La convivenza non è detto sia portatrice di relazioni future durature» riflette Chiara Marchetti. «Ragionando su come piccoli numeri di persone vivono insieme, possiamo sperare che queste esperienze, quantomeno nel palazzo, possano propagarsi anche ad altri soggetti. Oggi più che mai è necessario dare risposte non solo educative, ma culturali e politiche nella convivenza. Non c’è solo una risposta al benessere delle persone; diventa urgente dare una risposta a chi si trova escluso all’accoglienza istituzionale».

 

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