PAOLA CARIDI: «GAZA È DI TUTTI, E CI HA GIÀ CAMBIATO LA VITA»

Con Paola Caridi, che nell'ultima edizione di Multi ha presentato il suo ultimo libro, “Sudari. Elegia per Gaza”, una riflessione sul simbolo del genocidio, sulla pietà, sulla storia. «Gaza rappresenta tutto. Rappresenta il genocidio, rappresenta i diritti annullati. Gaza ci ha già cambiato la vita. Chi ha chiesto alla Flotilla di rinunciare, di fermarsi, non ha compreso il senso della missione»

di Maurizio Ermisino

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«Nascondono i corpi agli occhi del mondo, i sudari di Gaza. Velano i corpi con antica pietà, perché non siano preda del mondo. Non una, ma mille volte, migliaia e migliaia di volte, tante quante sono le immagini dei corpi maciullati, le repliche infinite dei corpi frammentati, sbranati, umiliati, che riempiono i nostri schermi insonni. Come silhouette candide, come fantasmi, come strappi bianchi nelle fotografie, i sudari di Gaza riempiono le macerie grigie, polverose di una terra totalmente distrutta. Azzerata. Desolata». Inizia così Sudari. Elegia per Gaza (Feltrinelli) il libro di Paola Caridi che è stato al centro di un sentito incontro a Multi 2025 , nei Giardini di Piazza Vittorio a Roma. È una riflessione su quello che è diventato il simbolo del genocidio in atto in Palestina. I sudari di Gaza non coprono. Rivelano. Raccontano. Resuscitano. Sono la stoffa della memoria, il segno visibile di un genocidio invisibile. Nel suo libro, Paola Caridi racconta che cosa sta accadendo in Palestina attraverso un’elegia vibrante e commovente, partendo da un simbolo che ci riguarda tutti. Abbiamo incontrato l’autrice a Piazza Vittorio e ci ha regalato un racconto a tutto tondo sulla Palestina. Partendo dalle parole, come genocidio. Che, nel caso di Gaza, è doppio.

Paola Caridi
«Sumud viene tradotto in “resilienza”, ma è un quotidiano affrontare le difficoltà di un contesto in cui c’è occupazione, umiliazione, non riconoscimento, invisibilità e de-umanizzazione. Riuscire pacificamente a rimanere fermi ma dover soggiacere a regole imposte dall’occupante l’ho sempre trovata la più grande dote dei palestinesi»

Quello di Israele verso i palestinesi è un genocidio doppio, o al quadrato…
«È un genocidio al quadrato perché non è solo, come dice la radice della parola che è stata codificata nel 1948, il genocidio di un popolo. È la distruzione e l’annientamento di una terra dopo due anni di bombardamenti indiscriminati. Il genocidio è al quadrato perché non c’è solo la distruzione della popolazione e della terra, ma c’è anche quella della relazione fra popolazione e terra, che è cruciale per i palestinesi e per tutte le popolazioni native: se tu distruggi la terra distruggi anche quel senso di appartenere, non di essere proprietario da essere “parte di”. È un concetto più difficile da far passare rispetto alle immagini devastanti che hanno colpito tutti. Il rapporto tra palestinesi e Palestina non è il rapporto di possesso/dominio che è quello degli israeliani, ma è quello di essere uno degli elementi del sistema».

Ha dichiarato che la riviera di cui parla Trump è una distrazione di massa. Anche se si farà sarà sempre un non luogo?
«Se la faranno, sarà una specie di satellite, un’astronave che da Marte cala lì. Il tentativo degli israeliani è stato non solo quello di de-umanizzare, ma di de-storicizzare Gaza. Per loro Gaza non esiste. Gaza invece ha una storia di 5mila anni. È la storia biblica di Sansone, ma anche quella dei popoli che hanno abitato il Mediterraneo orientale, egizi, cananei e così via. E questo è talmente evidente che una delle cose che vogliono fare gli israeliani, e hanno già fatto in parte, è distruggere il patrimonio archeologico. Gli scavi sono distrutti, ma non sono riusciti a distruggere tutto perché una parte della storia è fuori da Gaza. E non è possibile distruggerla. Non è possibile annullare questa storia. De-storicizzare vuol dire de-umanizzare e rendere i palestinesi bersaglio. Se non hai storia sei un oggetto».

Da che idea nasce il libro Sudari. Elegia per Gaza?
«Nasce all’inizio dell’anno. È una riflessione su quello che i fotografi palestinesi di Gaza ci hanno consegnato come il simbolo del genocidio. Noi ci siamo accorti del genocidio visivamente quando abbiamo iniziato a vedere quelle macchie bianche. Questi corpi nascosti dalla pietà, da un oggetto che serve per la sepoltura, ci hanno fatto scoprire che prima di essere ammazzati erano dei corpi vivi che non avevamo visto. Il sudario diventa il modo di coprire i corpi per farceli vedere. Sembra una contraddizione. Ma è quello che abbiamo visto che ha popolato i nostri incubi su Gaza, questi corpi e questi fagotti. Non è un caso che Mohamed Salem, un fotografo di Gaza, abbia vinto il World Press Photo con la foto iconica definita la pietà di gaza, quella di una zia che abbraccia una bambina di cinque anni. Non si vede nulla, né il volto dell’una né quello dell’altra, ma immaginiamo tutto. È quello che ci ha portato a metterci nei panni dei palestinesi. I sudari sono un simbolo, ma non di resa. E ce l’hanno consegnato loro. Così abbiamo ripreso una nostra tradizione, un nostro legame: le bende di Lazzaro, il sepolcro della sepoltura di Gesù, la Sindone. Abbiamo trovato un filo di contatto e di memoria con Gaza, che passa attraverso l’arte e la storia religiosa. Ma questo ci ha consentito di metterci nei loro panni. Un lenzuolo bianco è un oggetto carico anche della nostra storia. È stato semplice usarlo, com’era capitato negli anni Novanta a Palermo con la Mafia, per dire “nel nostro nome”. I lenzuoli esposti in tutta Italia sono stati anche il modo per scoprire la funzione dei comuni e degli enti locali che in questi mesi sono stati i corpi intermedi, quelli che hanno fatto sentire al governo centrale la pressione».

Era tra i pochi giornalisti che conoscevano davvero Hamas e ha sentito il bisogno di raccontarlo. Come si può spiegare davvero Hamas?
«Hamas è un movimento politico che ha usato strumenti terroristici. Che ha compiuto crimini. Ma è un movimento politico con una storia quarantennale, pur essendo nato nel dicembre del 1987 aveva una storia precedente di costruzione dell’idea di fare il braccio politico della fratellanza musulmana. Usare una definizione estremamente limitante come quella “sono tutti terroristi” vuol dire non riuscire neanche a comprendere che cosa sia successo nella storia di questo movimento politico».

Sentir dire “sono tutti terroristi” non solo riferito ad Hamas ma a tutti i palestinesi è doloroso per lei e per chi tiene alla causa palestinese?
«Credo che sia doloroso per tutti. Non solo per me, che ho cominciato vivendo al Cairo nel 2001 per scelta familiare. Sentir dire che “tutti gli arabi sono terroristi” è stato doloroso anche per i miei amici egiziani che mi chiedevano perché ci fosse questo stigma, questo stereotipo. Si dimentica che la maggior parte delle vittime degli attentati terroristici nella regione araba erano arabi: noi abbiamo una percezione della sicurezza che riguarda solo noi bianchi occidentali, l’altro non esiste. Ho cominciato a studiare Hamas perché mi era stato chiesto dalla Feltrinelli, per cui avevo già pubblicato un libro, Arabi invisibili. Vivevo a Gerusalemme, da lì era più semplice andare a Gaza con un permesso stampa: sono stata una giornalista accreditata per dieci anni. Nello stesso tempo questo mi ha fatto comprendere pezzi di storia che non conoscevo, un’angolazione, uno sguardo strabico sulla storia che è stato fondamentale per il mio percorso».

Dal suo punto di vista, come definirebbe il popolo palestinese a chi non lo conosce?
«Sono contro lo stereotipo e contro le identità. Credo che in ognuno di noi ci sia una molteplicità di comportamenti e pensieri. Definire il popolo palestinese è come schiacciarlo in dei cliché. Posso dire una cosa sul loro comportamento. Non dobbiamo chiedere ai palestinesi di fare cose che a noi non sono state chieste. Cioè di esercitare una politica come la esercitiamo noi ma in un territorio occupato militarmente dal 1967 con una doppia legislazione che condanna i palestinesi con sentenze che non vengono comminate agli israeliani per gli stessi delitti. L’altra cosa è il Sumud: viene tradotto in “resilienza”, ma è un quotidiano affrontare le difficoltà di un contesto in cui c’è occupazione, umiliazione, non riconoscimento, invisibilità e de-umanizzazione. Riuscire pacificamente a rimanere fermi ma dover soggiacere a regole imposte dall’occupante l’ho sempre trovata la più grande dote dei palestinesi».

L’opinione pubblica si sta compattando. Ma chi resite pensa ancora che Gaza sia la causa di una sola parte politica e sociale. È così?
«Gaza rappresenta tutto. Rappresenta ciò su cui ci siamo formati, cioè che un genocidio non si compie. Rappresenta i diritti, quelli del lavoro e della persona, che a Gaza vengono annullati. Siamo disposti ad accettare una cosa del genere che il giorno dopo riguarderà noi. Anzi, già oggi riguarda noi. Gaza non è una cosa di parte. Gaza ci ha già cambiato la vita. E i senzapotere lo sanno. Sono i vertici che non lo sanno. E questo scollamento non solo è assurdo, perché non capisci come ci sia questa incomprensione delle realtà che invece chi magari ha anche meno strumenti culturali ma chi ha più empatia comprende. Chi ha chiesto alla Flotilla di andare a Cipro, di rinunciare, di fermarsi, vuol dire che non ha compreso il senso della missione».

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paola caridiPaola Caridi
Sudari. Elegia per Gaza
Feltrinelli, 2025
pp. 122, €12

 

 

 

 

 

 

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