PIÙ SPORT PER LE DONNE, E PER TUTTA LA FAMIGLIA

Le donne lasciano lo sport a causa della famiglia. Contro il gender gap servono formazione, welfare familiare e campagne promozionali 

ÙAnche nello sport, in qualche modo, la donna rimane ingabbiata negli stereotipi di genere. In fondo lo sport non è un mondo a parte, e vive nella nostra società. E di questa società è quindi figlio. Ce lo racconta una ricerca dell’Università di Padova per conto degli enti di promozione sportiva Acsi, AiCS, Csen e Libertas per il progetto “Jump the gap” condotto con il finanziamento e il contributo operativo di Sport e Salute Spa.

Dalla ricerca emerge ancora una volta una visione della donna estremamente stereotipata trasversalmente al genere di appartenenza dei rispondenti. Sia uomini che donne hanno la stessa visione della donna come custode della gestione del nucleo familiare: 1 donna su 3 indica gli impegni famigliari tra le prime tre cause di abbandono dello sport (e solo 1 su 6 indica il far carriera nel mondo del lavoro tra le prime tre cause): in definitiva, per 4 su 10, la donna si esprime soprattutto nella famiglia.

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La copertina del rapporto “Jump the gap”

«Questo dato emerge da una ricerca nata all’interno del movimento dello sport ma diventa un dato utile a rappresentare la società di oggi», spiega Valeria Gherardini, curatrice della ricerca. «Nel 2021 le donne vengono percepite dalle donne stesse come vestali della famiglia. E quindi il contributo nell’organizzazione della gestione familiare del tempo libero per tutti è in capo alle donne». E a questo si aggiunge un altro dato. «Quando agli altri componenti della famiglia, se intervistati, viene chiesto che contributo possono offrire per supportare le donne nello sport, guardano al di fuori del nucleo familiare» aggiunge la curatrice. «È sempre nell’alveo di una deresponsabilizzazione. L’organizzazione della famiglia è in capo alle donne, le donne stesse la concepiscono così, e per poter fare sport si chiede alle istituzioni e, nota positiva per noi, agli operatori sportivi, ritenuti quegli esperti che possono aiutare le donne a non abbandonare lo sport».

Tutto questo ha portato a una riflessione importante. «Ci siamo detti: per noi intervenire significa aiutare la famiglia» commenta Valeria Gherardini. «Non le donne, ma la famiglia: far sì che tutti quelli che fanno parte della famiglia facciano sport, che tutta la famiglia cominci a pensare a un’organizzazione interna che sia distribuita. E solo così che possiamo fare qualcosa: interventi sulla famiglia e lavorare sul cambiamento culturale nella testa delle persone, in primis le donne».

Puntare sui giovani

C’è un altro dato che però risulta molto importante. Non sono pervasi da questi stereotipi i giovani. Tra gli adolescenti, infatti, la percentuale di chi vede nella famiglia un ostacolo per le donne, scende al 9%.  Sono gli adolescenti che praticano sport, infatti, che nella relazione che può intercorrere tra la scelta di una donna di abbandonare lo sport e un elemento che più di un altro influenza tale decisione non collegano la scelta allo stereotipo che lega donna e famiglia (la famiglia è scelta come aspetto meno influente).

Secondo loro gli altri ostacoli per un’attività sportiva costante, restano lavoro e studio. «Vuol dire che i giovani sono ancora scevri da queste stereotipie» riflette Valeria Gherardini. «E vuol dire che è sui giovani che noi possiamo puntare ora come ambasciatori per una sensibilizzazione delle famiglie affinché giovani, compagni, mariti nonni e nonne si distribuiscano l’organizzazione del tempo del nucleo familiare. I giovani possono diventare gli ambasciatori di questa sensibilizzazione di comunità».

Formare gli operatori sportivi

Gli altri possibili ambasciatori, e alleati in questa operazione di cambiamento culturale, sono gli operatori dello sport. Partiamo da un altro dato. Secondo gli intervistati, se la donna lascia l’attività sportiva la “colpa” è della gestione familiare: per 1 su 3 rispondenti (sia uomini che donne) la donna è impegnata in famiglia più di altri, e sono le stesse protagoniste – 4 su 10 – a dire che la donna si esprime soprattutto in famiglia. Tanto che, se dovesse lasciare lo sport, chiederebbe aiuto alla famiglia (lo pensano 4 uomini su 10 inserendo tale voce entro le prime cause); mentre, se dovessero essere gli uomini a lasciare il mondo dello sport, 1 su 2 di questi busserebbe alla porta proprio del coach (indicando tale scelta entro le prime tre posizioni nella classifica). Ma come leggere questo dato? «Noi lo intendiamo come una risorsa» ci spiega Valeria Gherardini. «Questo dato ci offre l’opportunità di intravedere negli operatori sportivi una risorsa per scongiurare il rischio dell’abbandono, e va a corroborare il dato che la donna nella famiglia non trova grandi risorse per continuare a fare sport e deve rivolgersi all’esterno. Questo dato va di pari passo con l’altro, che vede rispondere gli operatori sportivi in maniera molto pragmatica, per cui proprio loro – molto più degli altri ruoli dei 5mila intervistati – riescono a dare strategie e soluzioni concrete su come aiutare la donna a non abbandonare o a riprendere lo sport. Come i giovani per noi diventeranno risorse per la campagna di sensibilizzazione, così gli operatori sportivi diventeranno la risorsa su cui investire i nostri interventi di formazione».

Lo sport come scuola di cittadinanza

Nel progetto sono previsti tutta una serie di interventi formativi rivolti agli operatori sportivi e alle famiglie, la promozione di politiche di “welfare” dedicate alle famiglie e da inserire tra i servizi offerti dalle associazioni e società sportive, il coinvolgimento degli operatori sportivi nella promozione dell’accessibilità allo sport e della responsabilità condivisa di comunità nei confronti delle differenze di genere. E ancora l’attivazione di campagne di educazione rivolte ai giovani e campagne promozionali pubbliche e l’organizzazione di eventi sportivi e culturali di comunità dove a essere coinvolta sia la famiglia, tutta insieme.

«In termini di sensibilizzazione vorremo usare lo sport misto di genere, promuovere tornei, campionati – siamo aperti a tutti, non siamo federazioni e non vogliamo andare alle Olimpiadi – che prevedano la possibilità di fare insieme sport uomini e donne, ragazzi e ragazze», spiega la curatrice. «Promuoviamo l’attività mista, che consente di dare spazio alla socialità, ai valori che lo sport può trasmettere». «Un altro dato che emerge è che lo sport è importante per tutti ma le donne lo vedono soprattutto come salute e mantenersi in forma», continua. «Siamo ancora legati alla questione donna-corpo. Se noi riusciamo con campagne di sensibilizzazione a intervenire promuovendo tornei misti promuoviamo la socialità, il divertimento, l’uscire fuori, lo stare insieme, intendere lo sport come scuola di cittadinanza».

La palestra ideale

Nei piani a lungo termine, insieme alla formazione, c’è anche la programmazione della “palestra ideale” a misura di donna, ed efficaci campagne di comunicazione capaci di intervenire sul modello culturale attuale: programmi sui quali verranno concentrati i prossimi investimenti. «La palestra ideale è uno dei progetti del quadriennio», racconta Valeria Gherardini. «Noi un po’ di idee ce le siamo fatte, tra cui i voucher che possano consentire alle madri iscriversi e ottenere la gratuità per i figli. Ma anche una sorta di sondaggio e premiazione per le società sportive che si inventino delle formule che aiutino le famiglie a gestire in modo paritario le organizzazioni del tempo della famiglia. Siamo disposti a supportare anche finanziariamente le società che vogliano andare avanti, dalle infrastrutture sportive alle attrezzature, a servizi come il baby parking. Ma vorremmo lanciarci verso la creatività e una chiamata alle armi da parte di tutti».

 

Leggi anche: DONNE E SPORT: CONTRO LA DISCRIMINAZIONE C’È ANCORA TANTO DA FARE (retisolidali.it)

Il report di Jump The Gap si trova qui.

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