Simone, Francesca e Nicolò nel film "Positivə - 40 anni di HIV in Italia"
Positivə: la nuova generazione di persone HIV+ non vuole più nascondersi
"Positivə - 40 anni di HIV in Italia" è un documentario che racconta le storie di persone positive all'HIV. Per vincere lo stigma
- Maurizio Ermisino
- 02-12-2021
- Cultura, Da non perdere, Salute
«Non sprecate energie a nasconderlo, perché le energie vi servono per vivere». Sono le parole di Stefano Marcoaldi, che è stato il primo presidente di ASA, ad aprire Positivə – 40 anni di HIV in Italia, documentario indipendente che, in chiave pop, accende i riflettori su una nuova generazione di persone HIV+, che non vuole più nascondersi. Il documentario è arrivata in esclusiva sulla piattaforma in streaming Nexo+ (nexoplus.it) al prezzo speciale di 4,99 euro il giorno 1 dicembre 2021, Giornata Mondiale contro l’AIDS, nonché data di un’importante ricorrenza: i 40 anni dall’individuazione del virus. Il film sarà noleggiabile anche nei giorni successivi e fino al 5 dicembre al prezzo di 7,99 euro. Quelle di Marcoaldi sono parole che raccontano tante cose: la battaglia che, negli anni Ottanta e Novanta, i malati di AIDS dovevano fare per sopravvivere. Il senso di stigma che, prima di tutto, li portava a nascondersi. E il fatto che allora sopravvivere all’AIDS era una missione impossibile, contava solo restare in vita il più a lungo possibile.
Le storie
Positivə – 40 anni di HIV in Italia ci racconta un mondo diverso, quello di oggi, un’epoca che vede possibile convivere con il virus e condurre vite normali ma che vede ancora le persone infette vittime di un enorme stigma sociale.
Il documentario racconta un viaggio in macchina verso il mare tra quattro sconosciuti, tutti under 40, tutti HIV+, per scoprire le loro vite e raccontare a volto e cuore scoperti cosa significhi avere l’HIV oggi. Positivə, con la regia di Alessandro Redaelli, prodotto da Peekaboo e UAU e scritto da Elena Comoglio, Francesco Maddaloni e Ruggero Melis, racconta delle storie di HIV per la prima volta in Italia senza censure su volti e voci. Così entriamo nelle vite di una mamma milanese e un papà pistoiese, entrambi eterosessuali, di una ragazza transgender e di un ragazzo omosessuale.
È un racconto positivo, virato in chiave pop, colorato e vitale, che ci racconta l’oggi ma torna spesso indietro alla comunicazione del virus negli anni Ottanta e Novanta, quando era considerato appannaggio di omosessuali e tossicodipendenti. Fa parlare le associazioni che hanno combattuto il diffondersi dell’HIV tra gli anni Ottanta e Novanta, come ANLAIDS e ASA, e personaggi e attivisti che hanno fatto la storia di questa malattia, come Oliviero Toscani, Jo Squillo e Loredana Berté, oltre al finalista del Premio Strega Jonathan Bazzi, dichiaratamente HIV+. E poi Rosaria Iardino, la ragazza baciata sulla bocca dall’immunologo Fernando Aiuti in una storica fotografia del ‘91 che ha cambiato la percezione dell’AIDS, e l’infettivologo Massimo Cernuschi del San Raffaele di Milano.
Il silenzio
Si torna insomma finalmente a parlare di HIV e AIDS. Dopo le campagne degli anni Ottanta e Novanta, quelle del terrorizzante alone viola e quelle che seguirono (tra cui una campagna, che vediamo nel documentario, in cui Alba Parietti ripete continuamente “preservativo”, molto efficace) di questi argomenti si è smesso di parlare. «Di HIV e AIDS si è smesso di parlare perché era un argomento che faceva paura, che era meglio non trattare», spiega Francesco Maddaloni. «All’inizio la pandemia riguardava, ma apparentemente, omosessuali e tossicodipendenti. Erano gli anni Ottanta, erano ancora gli anni della Democrazia Cristiana».
«Con questo documentario noi volevamo compensare questo buco di comunicazione che c’è stato da allora» continua Maddaloni, «Da un lato perché la rappresentazione delle persone sieropositive non era corretta: oggi possono condurre vite al pari persone negative, possono avere figli. Dall’altro perché i giovani di questa storia non sanno nulla. Da quello spot con l’alone viola non c’è stato più nulla, o quasi. Conosco amici che sono colpiti dal virus, ed è una generazione che sta nel silenzio. L’HIV è un virus, esattamente come il Covid. Siamo ancora legati al fatto che l’HIV sia la malattia delle persone che hanno fatto sesso».
La narrazione
Oggi la vita di chi ha l’HIV è una vita normale, scandita solo da una piccola, ma vitale, abitudine: quella di prendere due pillole, una bianca e una rosa, al giorno. Sono i fondamentali farmaci antiretrovirali, grazie ai quali oggi si può vivere. C’è chi si è sposato, dopo un mese di convivenza con una persona, e oggi ha un figlio. C’è un’altra donna, sieropositiva, che ha potuto mettere al mondo una bambina, sieronegativa. È importante farla vedere, perché le donne eterosessuali sieropositive hanno paura.
«Se sei una donna sieropositiva, come puoi essere una buona madre?» è l’opinione comune, figlia di un vecchio retaggio. E poi nella storia c’è una transgender, e un ragazzo gay che ha una sua felice vita di coppia. Li vediamo inondati dalle luci del luna park. Perché il loro, oggi può essere un mondo luminoso, giocoso, divertente. Vediamo una festa di compleanno di bambini, le bolle di sapone, i palloncini: altri colori, altra speranza, altro futuro. «Noi ci battiamo molto per questa scelta volutamente pop» ci spiega Maddaloni. «Perché riguarda la situazione italiana. L’unica rappresentazione recente di una persona sieropositiva al cinema in Italia è quella di Gabriel Garko ne Le fate ignoranti di Ferzan Ozpetek, ed era un personaggio gravemente malato, allettato. Abbiamo deciso di invertire la narrazione delle persone sieropositive a volto coperto, con la voce modificata, la sfera del dolore e della morbosità di come era avvenuto il contagio, il rimpianto per la vita perduta. Quella dei sieropositivi oggi è una vita in cui si hanno dei figli, si fanno dei progetti, si vivono dei dolori d’amore, ma non è una mortificazione. Volevamo raccontare una storia che oggi è possibile grazie ai progressi che sono stati fatti, senza dimenticare il passato».
Si diceva…
E il passato scorre nel documentario Positivə – 40 anni di HIV in Italia, attraverso un piccolo televisore di quelli di una volta.
Nel 1981 viene scoperta una nuova malattia, che non aveva ancora un nome ma presto avrebbe cambiato il mondo. Verrà chiamata AIDS. «Subito si disse che era una cosa per omosessuali, era diventata una cosa classista», racconta Oliviero Toscani. Il Professor Cernuschi ricorda i primi ragazzi che arrivavano in ospedale, con i linfonodi ingrossati, la febbre alta. Dell’AIDS non si sapeva niente. Non lo conoscevano ancora i medici. Ma non lo conosceva neanche la gente. Si pensava che fosse una malattia contagiosa, che si trasmettesse con una stretta di mano, un bacio, un abbraccio. Come ci raccontano Loredana Berte e Jo Squillo, star della musica in quel periodo, ricordando anni in cui c’erano tre funerali a settimana, ed erano solo quelli noti, perché le famiglie si vergognavano. Si vedevano gli amici morire e non si sapeva il perché.
Il bacio
Nel documentario scorre la storia della malattia, e anche quella dell’arrivismo e del grande lavoro di comunicazione e di informazione che è stato fatto sull’AIDS. È emozionante vedere tra gli intervistati Rosaria Iardino, la ragazza della storica foto del ’91, quella che il professor Fernando Aiuti baciò sulla bocca. «Il Mattino di Napoli aveva titolato: “L’AIDS si trasmette bevendo dallo stesso bicchiere”» racconta Rosaria. «Io e Fernando (il prof. Aiuti) eravamo a Cagliari e c’era un fotografo del “Corriere”. Abbiamo fatto un gesto, diventato una foto famosa». Il titolo era «A Cagliari l’immunologo Aiuti bacia una giovane sieropositiva!»
«Non abbiamo voluto portare i giovani a conoscere solo la vita delle persone sieropositive» commenta Maddaloni. «Se oggi le persone possono essere le persone che sono, avere relazioni sentimentali, avere figli, lo dobbiamo a chi prima di queste persone si è battuto, ha chiesto la possibilità di avere i farmaci gratuiti. Era importante raccontare il passato attraverso una serie di angolature diverse, attraverso il mondo della comunicazione, della moda, dello spettacolo e dell’associazionismo».
«Alcuni aneddoti di Oliviero Toscani ci hanno fatto capire in che modo fosse dirompente il suo lavoro di fotografo» continua Maddaloni. «Ci ha detto: “Lavoravo per una casa di moda e portavo la foto di un malato di AIDS: era il modo più forte che avevo di mettere questo argomento davanti a chi i maglioni doveva comprarli, cioè i giovani” ». E in questo senso non perdetevi il racconto di Oliviero Toscani su quell’enorme preservativo messo sull’obelisco di Place de la Concorde a Parigi. «Sei contro tutto, ma la tua coscienza è a posto» commenta nel documentario.
I volontari
Negli anni Ottanta e Novanta una persona malata di AIDS era completamente emarginata. Il problema era avere qualcuno a fianco. Positivə – 40 anni di HIV in Italia racconta come volontari hanno incominciato ad andare dalle persone per aiutarle anche in piccole cose, come fare la spesa. «Mi sono emozionato a sentire i racconti di Marinella, una volontaria da sempre vicina alle persone HIV con un’associazione, ASA» confessa Maddaloni. «Ci siamo resi conto di essere profondamente fortunati e privilegiati a vivere i tempi che viviamo». La storia della volontaria che ascolta la musica insieme al malato e che va ad ascoltarla, per salutarlo, dopo la sua morte, è commovente. «Il lavoro delle associazioni è veramente fondamentale», racconta Maddaloni.
Positivə – 40 anni di HIV in Italia contro lo stigma
Oggi un sieropositivo può vivere una vita normale. Ma «lo stigma è fortissimo ed è ancora presente» ci conferma l’autore. «A fronte di questi personaggi c’è la voce di una persona che non può mostrarsi, ed è la stragrande maggioranza dei 130mila sieropositivi in Italia oggi. Le persone non dicono di essere sieropositive perché hanno paura di perdere il lavoro, di perdere gli amici, gli affetti. Sono persone che si sono annientate psicologicamente a causa di questa colpa. Lo stigma c’è, ha attraversato le nostre storie, ma non si sono lasciate schiacciare. L’AIDS non colpisce una categoria ma è trasversale. Tutti vivono in coppie sierodiscordanti, sono sieropositivi che hanno relazioni d’amore con persone sieronegative. Ci sono figli nati fa persone sieronegative in cura. L’HIV finora era associato solo alla comunità LGBTQ+. La più grande sfida per noi è stata trovare una donna sieropositiva: c’è un grandissimo tabù nel dichiararsi affette da HIV, perché per molti è ancora il virus di chi è colpevole di un comportamento sessuale promiscuo. E in Italia per molti le donne devono essere Madonne»
