PROFETI: LE DONNE, LA GUERRA, LA RELIGIONE

Profeti, di Alessio Cremonini, al cinema dal 26 gennaio, racconta il confronto tra una giornalista italiana in Medio Oriente e una foreign fighter che vive nel Califfato. Tra prigionia, diritti delle donne, religione, scontro di civiltà

Siria del nord, 2015. Sara, che ha il volto di Jasmine Trinca, piange affranta, sfinita, accasciata a terra in un sordido bagno. È la prima immagine, già potentissima, di Profeti, il nuovo film di Alessio Cremonini, vincitore del David di Donatello come Miglior regista esordiente per Sulla mia pelle, al cinema dal 26 gennaio. Profeti è la storia del confronto tra Sara (Jasmine Trinca), una giornalista italiana andata in Medio Oriente per raccontare la guerra dello Stato Islamico, e Nur (Isabella Nefar), una foreign fighter radicalizzata a Londra che ha sposato un miliziano e ora vive nel Califfato. Sara viene rapita dall’Isis e in quanto donna, in quanto essere inferiore che ha dignità solo se sottomessa al maschio, non può stare in una prigione dove sono presenti anche degli uomini. Per questo motivo viene data in custodia ad una sua pari: ad una donna.

Il rapimento: il tentativo di annullare l’altro

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Profeti è la storia del confronto tra Sara, giornalista italiana andata in Medio Oriente per raccontare la guerra dello Stato Islamico, e Nur, una foreign fighter radicalizzata a Londra che ha sposato un miliziano e ora vive nel Califfato

Un’altra immagine potentissima è quella che vede la protagonista, durante le prime ore di prigionia, celata a lungo da una pesante coperta. «Il film è racchiuso in un’immagine, dove l’attrice protagonista è presente ma non lo è» ci ha spiegato Alessio Cremonini. «È l’immagine dell’assenza di Jasmine, che la vede sotto la coperta. È l’essenza di un rapimento. Le coperte fanno parte di quel meccanismo molto umano che è il tentativo di annullare l’altro. Mettere una coperta è la sintesi più brutale e primitiva del burqa e del nihab. Se togli la visione quella persona non c’è, non esiste. È un film sull’assenza. E quindi su Dio. Che è il grande assente». «Ho passato molto tempo sotto la coperta» fa eco l’attrice protagonista, Jasmine Trinca. «Il cinema è sempre dispersivo, molto rumore interno, molte persone. Stare sotto la coperta mi aiutava ad andare laddove il film è una storia di finzione ispirata a tanti avvenimenti. Ho parlato con un giornalista, Domenico Quirico, a proposito dell’assenza e del vuoto, ci ha parlato di questa mancanza di senso che stare sotto una coperta mi aiutava a raccontare».

Fame d’aria, claustrofobia

Profeti è un film coeso, eppure è tanti film in uno. Ci sono la prigionia, i diritti delle donne, il Medio Oriente, la religione, lo scontro di civiltà. «Raccontare le donne è un’esigenza, raccontare il confine mediorientale è un’esigenza» ci spiega Alessio Cremonini. «La prigionia è il filo rosso della mia indagine. E questa mi sembrava una prigionia molto interessante da raccontare», Alessio Cremonini è colui che ci sbatte in faccia quello che rimuoviamo, quello che non vediamo o non vogliamo vedere. È stato così con la barbarie del caso di Stefano Cucchi, raccontato nello struggente Sulla mia pelle. Ed è così anche con la guerra in Siria, con la condizione delle donne. Tante volte, nella vita, giriamo la testa dall’altra parte, ma Alessio Cremonini ci prende a schiaffi – con il suo modo gentile ma duro, si intende – per farci girare la testa e guardare. Come in Sulla mia pelle gli interni – spogli, ruvidi ed essenziali – sono funzionali alla storia e realistici ma anche stilizzati, simbolici, come nei film teatrali di Derek Jarman. Le inquadrature sono semplici, funzionali, mai virtuosistiche, eppure rigorose, controllate, composte alla perfezione. Il risultato è un senso di claustrofobia. «Io so fare solo questo» commenta il regista. «Mi piace chiudere le persone. Molti spettatori si sentiranno chiusi accanto a Jasmine e Isabella. Chi ha visto il film mi ha detto di aver sentito proprio la fame d’aria, la claustrofobia. Sottrai sempre di più, come quando stai in apnea e senti che l’ossigeno è sempre meno. Quando Sara esce fuori vede un’altra chiusura, un passamontagna rigirato e i fuochi che sembrano danzare». Come Sulla mia pelle, Profeti è un’altra storia di diritti violati, di vite violentate.

Giornalisti con un messaggio di pace

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«I giornalisti che non prendono parte nelle zone di conflitto hanno un loro messaggio di pace» Foto di Kash Gabriele Torsello

Profeti è una storia particolare eppure universale. Sono tante storie in una. La prima è il giornalismo dei reporter di guerra. Vedi la Sara di Jasmine Trinca e pensi a Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli, a Giuliana Sgrena, e ancora a Marco Luchetta, Alessandro Ota, Dario D’Angelo, Miran Hrovatin, Enzo Baldoni. A tanti colleghi per cui non abbiamo stima, ma venerazione, per il loro coraggio, per il senso della professione, della verità, della giustizia. E della pace. Perché se queste persone scelgono di raccontare la guerra, è sempre per l’aspirazione alla pace. «Il tema della pace e dei diritti umani è importante per Alessio» ci spiega Susan Dabbous, consulente per la sceneggiatura. «I giornalisti che non prendono parte nelle zone di conflitto hanno un loro messaggio di pace. L’informazione è possibile solo dove c’è rispetto dei diritti umani. Il mestiere del giornalista è diventato pericoloso: il numero di giornalisti rapiti e imprigionati è aumentato».

Tutte le donne del mondo sentono esercitare un potere molto simile

Ma Profeti è soprattutto una storia di donne. Un film su due donne occidentali che hanno fatto scelte diametralmente opposte. Sara, una giornalista italiana rapita dall’Isis durante un reportage di guerra in Siria, e Nur che la tiene prigioniera per mesi in una casa costruita in un campo di addestramento dello Stato Islamico. «Non puoi imprecare. Non puoi cantare, E non puoi pregare il tuo Dio» dice subito Nur a Sara. «Io non ho un Dio» risponde Sara. Nur è gentile. È buona, Ma è anche fredda, ferma nelle sue idee, integrata nel suo stile di vita. Perché una fede, come l’ideologia ha le maglie ben strette che non lasciano passar altro. Il punto di vista di Alessio Cremonini è distante, neutro, libero da fedi o ideologie. Sembrerebbe normale stare dalla parte di Sara. Ma il regista fa parlare anche Nur, la ascolta, prova a farci vedere il suo punto di vista e a capire le sue ragioni, la sua fede incrollabile. In Profeti Alessio Cremonini ascolta e non giudica mai. E così vorrebbe che facessimo noi. «Mi piaceva portare una piccola presunzione da giornalista occidentale, la presunzione di uno sguardo che pensa di dire alle donne che vivono lì il modo in cui trovare la propria libertà» commenta Jasmine Trinca, centrando uno dei temi chiavi del film. «Tutte le donne del mondo sentono esercitare un potere, uno sguardo che è piuttosto simile. Che dalla religione viene abusato ma che un assetto scoiale continua a portare avanti, che è il patriarcato».

In Medio Oriente, se sei una donna, devi imparare a difenderti il prima possibile

In Profeti c’è una totale assenza di pregiudizio «Ci trattate come bambini che hanno bisogno di una guida» dice Nur a Sara, riferendosi agli occidentali. E non è difficile, per un attimo mettersi anche nei suoi panni. «La cosa che mi interessava, quando ho letto il ruolo di Nur, era capire questo senso di appartenenza che ha» racconta Isabella Nefar. «Quella volontà che hanno tutti i foreign fighters di appartenere a qualcosa. È una ricerca che risuonava anche a me che faccio parte di due culture diverse e non ho mai voluto far parte né di una né dell’altra. Profeti parla di due donne che, da estremi lontani, trovano una comunione in certi momenti». «La tua fede è sottomissione» dice a un certo punto Sara. «Siamo liberi solo se sottomessi ad Allah» risponde Nur. Punti di vista diversissimi, ma che Cremonini prova a farci capire. E, a proposito di donne, il film inizia con le parole di una combattente curda intervistata da Sara. «Combatto per i curdi, per la libertà e per le donne» dice. «In Medio Oriente, se sei una donna, devi imparare a difenderti il prima possibile. Qui, la maggior parte dei regimi è basata sulla sottomissione, sull’oppressione delle donne. È per questo che le uniche persone che possono cambiare questa mentalità sono le donne».

Siria: si è “normalizzata” la fame

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«In Siria abbiamo normalizzato i massacri quotidiani. Ora si è normalizzata la fame». Foto di Kash Gabriele Torsello

Alessio Cremonini, ancora una volta, ci costringe a guardare in faccia le cose. La guerra, ad esempio. Dopo che va avanti da troppo tempo, a volte neanche troppo, sembra non interessare più a nessuno. E il rischio è l’assuefazione, la normalizzazione della guerra. «Il tema della guerra ci accompagna da tanti anni» riflette Susan Dabbous. «Afghanistan, Iraq, le primavere arabe trasformate in conflitti lunghi. Ho iniziato a raccontare la guerra in Siria essendo di origine siriana. C’è stata l’assenza dell’Occidente nel supporto degli strumenti che servivano per rovesciare un regime dittatoriale. È stata la storia di una ribellione, di una repressione, e di un abbandono: chi chiedeva libertà è stato abbandonato». Ora la guerra al centro dell’attenzione è l’Ucraina: dopo quasi un anno anche di questa guerra si parla meno. «Stiamo normalizzando la guerra» continua la giornalista. «In Siria abbiamo normalizzato i massacri quotidiani, poi è arrivata l’Isis che ha fatto altri massacri. Si è normalizzata la distruzione di Aleppo, la presa di Mosul da parte dell’ISIS. Ora si è normalizzata la fame. La popolazione, in Siria e anche in Libano è alla fame: quando si normalizza la guerra crollano le economie e collassa il sistema. E oggi non c’è più da mangiare. Ecco cosa succede quando si normalizza l’idea di vivere con la guerra».

Il problema delle foreign fighters

Riccardo Nouri di Amnesty International ci ricorda, che, in realtà, in Siria la guerra non è finita, che i curdi sono sotto attacco e che, come detto, milioni di siriani ad Aleppo fanno la fame. È l’eredità pesante di un conflitto. E ci ricorda che quello delle cosiddette foreign fighters, le mogli di chi è andato in Iraq e in Siria a combattere, è un problema scottante. «Ci sono centinaia di cittadini e cittadine europei in condizioni di prigionia in campi squallidi per il mero fatto di essere mogli e figli di combattenti islamici.  E l’Europa le sta dimenticando. La Francia è stata condannata perché ha violato la convenzione europea per la prevenzione della tortura perché non porta a casa 500 donne francesi lasciandole marcire in un campo e in questo modo le sottopone a tortura. Un altro tema di questo film, che ci porta all’attualità, è questo: che facciamo di queste cittadine europee abbandonate in questi campi di prigionia?»

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