A REBIBBIA UN PO’ DI NORMALITÀ CON IL PING PONG

Con Atletico Diritti a Rebibbia si riparte da un tavolo, due racchette e una pallina per creare connessioni, trovare una passione, ricominciare a guardare oltre le sbarre. Cosi il ping pong si aggiunge al calcio maschile e femminile, al basket e al cricket e oggi la squadra di tennistavolo gioca con i colori della polisportiva nata dall’impegno di Antigone

di Giorgio Marota

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Se la prima cosa fatta da Florin una volta scontata la sua pena è stata cercare un’associazione sportiva dove coltivare l’interesse per il ping pong, allora quel progetto nato in carcere può avergli davvero salvato la vita. Oppure, nella meno impattante delle ipotesi, gli ha fatto capire che dopo anni di reclusione e privazioni, avendo fatto pace con la propria coscienza, vale ancora la pena credere in qualcosa che chiamiamo passione, anche se è nata dietro una sbarra, dentro spazi grigi, circondati da muri tutti uguali come i giorni della settimana. In galera è difficile rifarsi una vita. Nelle carceri italiane è addirittura complicato sopravvivere in condizioni degne. Nel nostro Paese sono recluse 62.761 persone a fronte di una capienza regolamentare di 51.296. il tasso medio di affollamento è del 133% e su 190 strutture sono appena 36 quelle considerate non sovraffollate. Trentotto detenuti si sono suicidati dall’inizio dell’anno, 3.500 agenti della polizia penitenziaria sono stati aggrediti. Per garantire un’adeguata sicurezza servirebbero 18 mila agenti in più. Si sa: in Italia si taglia dove si può, anche dove non si dovrebbe. In contesti così problematici lo sport può germogliare come un seme di speranza, permettendo alle persone di assaporare momenti di svago. Quindi di normalità.

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«Chi veniva a giocare da noi sembrava andasse allo zoo: temevano di avvicinarsi troppo, osservavano con sospetto, cercavano di non dare troppa confidenza. Alla fine però si sono resi conto non c’erano animali. Ognuno ha il proprio percorso complesso e qualcuno, probabilmente, là dentro neppure dovrebbe starci»

Atletico Diritti: a calcio, basket e cricket si aggiunge il ping pong

A Rebibbia il ping pong è davvero lo sport del momento. Gli educatori la considerano una disciplina inclusiva perché accessibile a tutti, nella quale non esistono barriere e in cui bastano un tavolo, due racchette e una pallina per organizzare una partita. In uno spazio sui generis come lo è un istituto penitenziario viene tra l’altro apprezzato poiché non esiste contatto pur essendoci prossimità tra i giocatori. A due metri di distanza si interagisce con i giusti tempi, insomma. Nella casa di reclusione romana è cominciato tutto nel 2021 tramite una sperimentazione. Oggi esiste una vera squadra di tennistavolo che gioca con i colori dell’Atletico Diritti, la polisportiva nata nel 2014 dall’impegno dell’associazione Antigone, attiva nel promuovere le garanzie del sistema penale e penitenziario, e da quello di Progetto Diritti, che offre assistenza legale alle comunità migranti.

Al calcio maschile e femminile, al basket e al cricket si è aggiunto il ping pong grazie a Fabio Di Silvio, insegnante di educazione motoria e ovviamente pongista. Fabio ha cominciato organizzando degli allenamenti, una volta a settimana, di martedì, fino a creare una piccola selezione cresciuta insieme all’ambizione dello stesso progetto: «Ci siamo chiesti: perché non fare un campionato? Siamo partiti dal livello federale più basso, il D3, però non ci accontentavamo di tornei o semplici amichevoli. I ragazzi meritavano di uscire, anche se solo simbolicamente, da quelle sbarre, per confrontarsi con gli altri». Uno dei problemi del carcere, dove tutto per natura è variabile e provvisorio, resta quello di dare continuità a un intervento. «La burocrazia è enorme, i regolamenti cambiano di continuo come i direttori, e serve una richiesta per qualsiasi cosa. Le chiamano “domandine”. Sono degli ostacoli alla semplificazione che lo sport viceversa richiederebbe. Però eravamo noi a doverci adattare al contesto e l’abbiamo fatto con piacere», racconta Fabio. «Il carcere poi è un porto di mare: c’è chi arriva e chi se ne va, chi viene spostato o addirittura trasferito. Però una squadra siamo stati comunque in grado di allestirla». Ed è un gruppo autentico: a imbracciare la racchetta sono solitamente 5 o 6 ragazzi, altri gravitano attorno ai loro “campioni” aiutandoli tramite grandi o piccole mansioni. «C’è chi fa il tifoso, chi il segnapunti, chi porta il materiale, chi aiuta nell’organizzazione pratica e chi semplicemente si mette a disposizione per quello che serve». Così l’Atletico Diritti è scesa in campo dodici volte nell’ultima stagione. Con un’eccezione al regolamento federale: ha giocato sempre in casa, vista l’impossibilità di portare detenuti che hanno commesso reati molto diversi tra loro fuori da Rebibbia.

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La novità della prossima stagione potrebbe essere l’ingresso a Regina Coeli, un carcere giudiziario dove il via vai di persone è ancora più frequente rispetto a Rebibbia.

Fabio Di Silvio: «Non è un semplice lavoro, è portare un sorriso in un ambiente difficile con lo sport che amo»

«I benefici sono stati evidenti: il contatto con le altre persone, il divertimento, l’aspetto agonistico. Quei detenuti erano abituati a fare solo i colloqui, avere nuovi scambi con altre persone vale tantissimo per loro». All’inizio la diffidenza ha creato un po’ di isolamento, scoraggiando un po’ i promotori dell’iniziativa. Le squadre del Lazio che venivano contattate, infatti, non sempre accettavano di varcare il muro della prigione. «Entrarci da uomo libero fa un certo effetto», ammette l’allenatore. «Chi veniva a giocare da noi sembrava andasse allo zoo: temevano di avvicinarsi troppo, osservavano con sospetto, cercavano di non dare troppa confidenza. Alla fine però si sono resi conto non c’erano animali. Ognuno ha il proprio percorso complesso e qualcuno, probabilmente, là dentro neppure dovrebbe starci». Entrando a Rebibbia, i giocatori notavano i detenuti. Poi hanno cominciato a vedere i giocatori, infine le persone.

Lavorare con la persona e non con il reato che quest’ultima ha commesso è uno degli obiettivi che Di Silvio si è posto fin dal primo momento. «Alcuni si aprono e ti raccontano quello che gli è capitato, altri non ti dicono una virgola. Proteggersi dal giudizio esterno è un loro diritto. Fare sport però aiuta tutti. Te ne accorgi quando sorridono perché un semplice allenamento rende un pochino diverse delle giornate tutte uguali. C’è gente che scende dal letto solo per il ping pong e per il colloquio della domenica con i familiari». Con tanti detenuti il rapporto resiste finché c’è lo sport a creare connessioni. C’è anche chi trova in Fabio un punto di riferimento fuori dal carcere. Come Florin, che sta continuando con il ping pong. Chissà se sta giocando anche Cornelio, uno dei più bravi del corso per il suo stile di gioco elegante ed elusivo, oppure Luca, che non vedeva l’ora di uscire per fare sul serio con la racchetta ma ha fatto un reato durante la detenzione ed è stato trasferito. «Molti non sanno che in Italia esiste anche il fine pena mai. Avete presente le pene alternative? E la semilibertà? Ecco, c’è gente che esce dal carcere alle 7 di mattina e ci rientra alle 7 di sera per tutta la vita. Per me non è mai stato un semplice lavoro, è portare un sorriso in un ambiente difficile tramite lo sport che amo». La novità della prossima stagione potrebbe essere l’ingresso a Regina Coeli, un carcere giudiziario dove il via vai di persone è ancora più frequente rispetto a Rebibbia. L’obiettivo resta mettere radici, augurandosi che in qualche modo attecchiscano.

A REBIBBIA UN PO’ DI NORMALITÀ CON IL PING PONG

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