RICOSTRUIRE LA PACE CON LA GIUSTIZIA RIPARATIVA. L’ESPERIENZA DEL SUDAFRICA

Nel passaggio dai regimi autoritari alla democrazia, la giustizia riparativa gioca un ruolo fondamentale. Per ricostruire la verità e superarla

di Irene Bracchi

Parlando di pace e nonviolenza è facile che ci vengano subito in mente le lotte per i diritti civili, per l’autodeterminazione o contro oppressori violenti. Difficilmente si pensa all’applicazione del metodo nonviolento alla ricostruzione e pacificazione di un intero Paese.

Nel corso della seconda metà Novecento, la storia di molti Paesi è stata attraversata dalla transizione da regimi di stampo autoritario o da retaggi coloniali verso la democrazia. In tale contesto si è posta la riflessione sul metodo da utilizzare per realizzare tale passaggio. In questo panorama assume significativa rilevanza l’esperienza sudafricana. Il Paese nei primi anni Novanta si trovava sull’orlo di una guerra civile e dopo le prime elezioni democratiche, vinte da Nelson Mandela il 27 aprile 1994, si pose la questione su come affrontare e come giudicare le sistematiche violazioni dei diritti umani, le torture, le persecuzioni e le morti che avevano segnato il regime dell’Apartheid.

Le due posizioni

Nel dibattito sudafricano si contrapponevano due posizioni politiche: da un lato quella del nuovo Governo, che avrebbe voluto concentrarsi sulla costruzione di un Paese nuovo, quasi dimenticando i decenni segnati dall’Apartheid, dall’altro quella dell’African National Congress, con le altre organizzazioni di liberazione che chiedevano l’incriminazione dei responsabili della politica segregazionista e delle violazioni dei diritti umani, attraverso l’istituzione di tribunali speciali ispirati al modello di Norimberga.

Si poneva quindi la scelta su come affrontare a livello istituzionale il doloroso passato del Paese. Era necessario decidere le modalità con cui porsi nei confronti della vecchia classe dirigente responsabile degli abusi e al contempo garantire la tutela delle vittime. Si tratta di un aspetto comune a tutti i Paesi in cammino verso la democrazia, dopo un’epoca di repressioni e di violazioni dei diritti umani: devono decidere come affrontare il proprio passato per ricostruire la verità collettiva ed individuale. Gli strumenti che mirano a ricostruire un tessuto di comprensione e coesistenza dopo i periodi di scontri e di violenza sotto il profilo politico-diplomatico prendono il nome di post-conflict peace building.

La giustizia riparativa

La sintesi tra le due opposte posizioni sfociò nella creazione della Commissione per la Verità e la Riconciliazione Sudafricana (Truth and Reconciliation Commission, TRC), in linea con la posizione di Nelson Mandela, che combinava il metodo nonviolento e la tradizione tribale africana, conosciuta con il nome di Ubunto, letteralmente “umanità verso gli altri”. La commissione aveva lo scopo di contribuire sia alla legittimazione del nuovo sistema politico, sia alla delegittimazione del vecchio regime e della sua ideologia.

Si decise di non ricorrere a un tribunale internazionale perché, nonostante i processi davanti ai Tribunali Penali Internazionali possano senz’altro contribuire a dimostrare l’estensione e la gravità delle violazioni e degli abusi commessi, l’indagine processuale degli stessi rimane focalizzata sulle azioni specifiche di singoli individui, senza giungere all’obiettivo di indagare e di portare sulla scena pubblica l’intero quadro delle violazioni. Vi era poi la preoccupazione che il processo avrebbe potuto condurre ad un aumento delle divisioni interne tra i popoli.

A differenza delle esperienze precedenti dei Tribunali di guerra, in cui il giudizio era demandato ai vincitori, l’azione della Commissione poneva al centro del proprio operato i princìpi elaborati dalla giustizia riparativa, che promuove la reintegrazione nella società dei persecutori, attribuendo a questa finalità lo stesso livello di importanza del riconoscimento delle sofferenze delle vittime. Secondo Tony Marshall: «La Giustizia riparativa è un processo nel quale tutte le parti che hanno un interesse ad affrontare gli effetti che derivano dalla commissione di un reato si riuniscono per gestire collettivamente tali conseguenze e le loro implicazioni per il futuro». Laddove, l’“interesse ad affrontare gli effetti” include la riparazione materiale del danno, l’attenzione ai bisogni emotivi della vittima, la risoluzione di ogni conflitto fra vittima e autore e, a livello più ampio, tra le rispettive comunità di appartenenza. Con la convinzione che la sola punizione del carnefice non permetta alle vittime di superare gradualmente i sentimenti di vendetta, la possibilità di riguadagnare il controllo sulla propria vita e sulle proprie emozioni. Come evidenzia lo studioso Martin Wright: «La giustizia riparativa rinuncia ad aggiungere male al male (la sofferenza della pena alla sofferenza causata dal delitto) per destinare ogni energia utile alla reale tutela delle vittime, attraverso un percorso di riparazione.»

La verità e l’amnistia

I 17 membri della Commissione furono selezionati in modo da rappresentare un campione di nomi illustri quanto più eterogeneo per sesso, professione, etnia, gruppo linguistico e religione. Il mandato era di raccogliere e registrare le testimonianze di coloro che si erano resi colpevoli di violazioni dei diritti umani durante il regime dell’Apartheid, o di coloro che erano state vittime di tali violazioni, con la possibilità di concedere l’amnistia ai rei confessi. Condizione necessaria per ottenere l’amnistia era una confessione completa e che il crimine avesse una matrice ideologico-politica: erano dunque esclusi da questo privilegio i reati comuni e le violenze della criminalità organizzata, che aveva sfruttato i disordini della lotta all’Apartheid per accrescere il proprio business.

Il lavoro della Commissione si svolse su diversi livelli: la ricostruzione della dimensione storico-collettiva delle violazioni; la ricostruzione della verità, direttamente collegata all’identificazione degli autori delle violazioni; il coinvolgimento degli autori delle violazioni (persecutors) in un percorso di rivelazione e di presa di coscienza delle proprie responsabilità individuali.

Nel 1998 uscirono i risultati del lavoro della Commissione per la verità e la riconciliazione che portarono alla luce i crimini perpetrati dalla polizia e dall’esercito, dal governo dell’Apartheid, ma anche dall’ANT stesso. L’amnistia fu concessa a 849 persone e negata a 5392, su un totale di 7112 richieste totali.

 

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