L’ETERNA EMERGENZA IN CUI VIVONO I RIFUGIATI

Secondo l'UHNCR ci sono 79,5 milioni di persone in fuga da guerre e persecuzioni. I più numerosi sono Siriani, Afgani e Venezuelani

Celebrare la Giornata mondiale del Rifugiato in tempi di pandemia vuol dire riconoscere la permeabilità di confini sempre meno invalicabili. Eppure, nel corso dell’emergenza sanitaria, alcuni processi relativi alle politiche migratorie e alla gestione delle frontiere hanno finito per radicalizzarsi, aggravando le condizioni di chi è alla ricerca incessante di pace e giustizia.

Ora però, con l’attenuarsi della pandemia da Covid-19, i viaggi della speranza e della disperazione sono ripresi a pieno e con essi sono tornate a farsi sentire le tante emergenze irrisolte. È questa la riflessione che ha fatto da sfondo all’incontro dal titolo “Pandemia, ma non solo. L’eterna emergenza in cui vivono i rifugiati”, promosso dall’Unione Nazionale Italiana per i Rifugiati ed Esuli – UNIRE e trasmesso sabato 20 giugno, in occasione della Giornata del Rifugiato, in diretta streaming sulla pagina Facebook dell’associazione. Un dibattito a più voci, che ha inteso accendere i riflettori sui “nervi scoperti” di un fenomeno che sta assumendo dimensioni sempre più preoccupanti.

 L'ETERNA EMERGENZA IN CUI VIVONO I RIFUGIATI
Da dove vengono i rifugiati e quali Paesi ne ospitano di più (UNHCR, Global Trends Force Displacement 2019)

Secondo il recente rapporto annuale Global Trends, pubblicato dall’Unhcr (Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati), alla fine del 2019 risultavano essere in fuga 79,5 milioni di persone – di cui 45,7 milioni erano sfollati all’interno dei propri Paesi -, quasi 10 in più del 2018. Non solo: gli esodi forzati oggi riguardano più dell’1% della popolazione mondiale – 1 persona su 97 – mentre continua a diminuire il numero di coloro che riescono a far ritorno a casa e che possono usufruire di una soluzione durevole.

 

I Balcani e la Libia

Numeri allarmanti dietro ai quali si nascondono le storie di quanti sognano un futuro il più possibile lontano dall’inferno. Tra loro c’è chi cerca di raggiungere l’Unione Europea via terra, attraverso la cosiddetta rotta balcanica, area di transito divenuta estremamente pericolosa a seguito della chiusura ufficiale nel 2016. «Da quel momento c’è un flusso irregolare di persone che si affidano a trafficanti senza scrupoli», ha dichiarato Francesca Bonelli di Unhcr. «In questo contesto è importante rimanere uniti per non trasformare i Balcani in una zona cuscinetto. L’UE deve giocare un ruolo guida nel far sì che ci sia maggiore solidarietà non solo all’interno, ma anche nei paesi limitrofi».

Un auspicio che diventa un grido di allarme se si pensa alla Libia: qui migliaia di profughi vengono imprigionati, torturati e uccisi, mentre altri perdono la vita tentando la fuga attraverso il Mediterraneo centrale, rotta migratoria con un tasso di mortalità tra i più elevati. «Il diritto umanitario e marittimo internazionale fanno parte della nostra cultura giuridica e della nostra identità», ha commentato Annalisa Camilli, giornalista di “Internazionale”, da sempre in prima linea in tema di immigrazione. «Per questo le politiche di immigrazione dovrebbero cominciare a terra, quando le persone sbarcano e vengono messe in sicurezza. Solo a questo punto dovrebbero essere valutate le loro domande di asilo».

Le leggi italiane

Alla base delle tante criticità legate a questo fenomeno planetario – l’emergenza in cui vivono i rifugiati – c’è però un problema legislativo: l’Italia ha una legge sull’immigrazione che risulta ormai superata e una sulla cittadinanza che è del lontano 1992. Ad aggravare il quadro hanno contribuito i più recenti decreti sicurezza, che hanno condotto a criminalizzare le Ong e il mondo della solidarietà. «Da una parte i decreti sicurezza hanno “storpiato” il sistema di riconoscimento di protezione internazionale nel nostro Paese, dall’altra hanno contribuito a modificare il sistema di accoglienza, riducendo quella dimensione che negli anni si era dimostrata estremamente positiva», ha spiegato Donata Borgonovo Re, docente di Diritto delle Migrazioni presso l’Università di Trento. «Il risultato è un percorso di regolarizzazione sempre più a ostacoli, che ha indotto le persone a piegarsi in una condizione di invisibilità».

Eppure, nonostante tutto, una voce di speranza ancora si leva: è quella degli enti locali e delle tante associazioni che operano dal basso secondo il principio di sussidiarietà: «La ricchezza delle reti», conclude la docente, «ci mostra come possiamo ben sviluppare comunità nel rispetto, nell’accoglienza e nella valorizzazione reciproca di intelligenze e competenze».

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