I CAMPI ROM, LA DESOLAZIONE, LA PACCHIA. ECCO IL DOCUMENTARIO SUL CAMPING RIVER

Si può arrivare alla chiusura dei campi senza percorsi di integrazione e riconoscimento dei diritti dei Rom? Un documentario di Cabotti e Maffia

Le case distrutte, i tavoli rovesciati, i rubinetti incrostati, le voci degli abitanti e degli attivisti… È passato quasi un anno dalla chiusura del Camping River e nulla sembra essere cambiato per i Rom a Roma. Anzi, in campagna elettorale la cronaca ci consegna episodi di rifiuto nei confronti delle famiglie cui è stata assegnata una casa e un crescendo di odio verbale, a scopo di propaganda politica. E generiche dichiarazioni sulla chiusura dei campi Rom, senza che nessuno dica come farlo. Per questo vi proponiamo un mediometraggio proprio sul Camping River. Si intitola “Oltre la desolazione/2. La pacchia” e gli autori sono Gianni Carbotti e Camillo Maffia. Vale la pena vederlo, perché ripercorrere attraverso le immagini quella vicenda, aiuta a capire aspetti importanti di ciò che sta succedendo in queste settimane, aspetti che i media normalmente non raccontano.

 

 

Camillo Maffia, perché avete deciso di girare questo documentario?

«La vicenda del Camping River è molto complicata. Avrebbe dovuto essere costruito un altro campo in un’altra zona, dove portare gli abitanti del River, ma non è stato fatto. Scaduto il contratto, il Comune, dopo una lunga querelle con la cooperativa che lo aveva gestito fino a quel momento, non lo ha rinnovato e da quel momento il campo è diventato abusivo. Le condizioni di vita si sono degradate: è mancata l’acqua, poi la luce, è aumentata la sporcizia, sono arrivate le minacce di sgombero… Uno sfacelo umanitario».

Eppure fino a quel momento le condizioni di vita erano più che accettabili.

«Il Camping River era un campo modello, dove c’era pulizia e la scolarizzazione  era arrivata al 90%, c’era anche un laureando e c’erano tre diplomati».

Poi cosa è successo?

«Quella specie di stato d’assedio che il Comune aveva costruito è culminato non con lo sgombero, ma con la distruzione dei container, cioè i moduli abitativi, che erano del Comune stesso, tanto che si potrebbe parlare di danno erariale, perché avrebbero potuto essere riutilizzati altrove».

Alla fine gli abitanti sono stati sgomberati. Sono riusciti a trovare una casa?

«Alcune delle famiglie Rom che dovevano essere accolte a Torre Maura provenivano dallo sgombero del Camping River. Direi comunque che la maggior parte delle famiglie non ha ancora trovato una ricollocazione».

chiusura dei Campi Rom
Un’immagine dello sgombero del Camping River

Torniamo sempre allo stesso punto: non c’è una vera strategia per risolvere il problema della chiusura dei campi Rom.

«Adesso i campi sono una realtà davvero problematica, ma non dimentichiamo che è un problema che abbiamo creato noi. Sappiamo che la maggior parte dei campi è abitata da profughi della ex Jugoslavia, che fuggivano dalla guerra e per i quali era stata trovata questa soluzione, che doveva essere temporanea e poi è diventata permanente. Si è così creato un corto circuito assistenziale, che ha coinvolto proprietari dei terreni, enti pubblici e non profit. Ormai è un problema endemico. Nel 2012 è stata pubblicata la Strategia Nazionale di Inclusione dei Rom, dei Sinti e dei Caminanti, che però avrebbe dovuto essere implementata a livello locale. A Roma non è stato fatto. Renzi ha prorogato la Strategia fino al 2020, ma nel frattempo lo scenario è cambiato, con il risultato che ci troviamo a invocare il rispetto di una strategia adesso obsoleta. E non dobbiamo dimenticare che le criticità nell’inclusione non sono solo i campi nomadi: ad esempio è un problema il fatto che i Rom sono minoranza che non è mai stata riconosciuta. Tutto il resto l’hanno fatto anni di hate speech, propaganda, dati gonfiati, a partire da Berlusconi, che cominciò a parlare di “emergenza Rom”. In realtà a Roma si tratta al massimo di 7.800 persone, di cui metà bambini, in una metropoli che ha 4 milioni abitanti».

Aggiungiamo anche i gruppi di estrema destra, che sobillano la popolazione, soprattutto quando vogliono impedire a qualche famiglia di entrare nell’appartamento che le è stato legalmente assegnato. Però non si potrebbe almeno cercare di affrontare qualcuno dei problemi che maggiormente creano ansia nei cittadini: i roghi tossici, la legalità nei campi…?

«La distanza tra pericolo percepito e pericolo reale è tale – anche nel caso del Camping River – che è davvero difficile colmarla. In realtà i cittadini non sanno cosa realmente succede nei campi. Ma colpevolizzare il poveraccio che per guadagnare 20 euro respira diossina perché ha acceso un fuoco, a che serve? Il vero problema è il circuito illegale dello smaltimento dei rifiuti. Nel campo di Salone c’è una vera e propria discarica abusiva: io ci sono salito e ho visto oggetti inclassificabili, ma che certamente non sono stati prodotti dai Rom. C’è il pericolo che si guardi il dito e non la luna: se colpevolizziamo una persona che obiettivamente commette un reato e provoca danno alla salute pubblica, concentriamo tutta l’attenzione sul sintomo piuttosto che sulla malattia, per ovvie ragioni di convenienza».

E quindi, da dove ricominciamo, non solo per chiusura dei campi Rom, ma per l’inclusione?

«Bisogna riprendere prendere i punti della Strategia a livello nazionale e locale e aggiornarla prima che sia troppo tardi. A Roma c’è stata anche Mafia Capitale,  che ha complicato le cose, e poi c’è stato il commissariamento, che non ha portato soluzioni né cambiamenti. L’assessora Francesca Danese, della giunta Marino, aveva impostato un buon lavoro che non è stato ripreso da nessuno. Ma sappiamo che senza un approccio collegiale questo problema non troverà mai una via di uscita e che bisogna fare molta attenzione ai problemi pratici».

Se avete correzioni o suggerimenti da proporci, scrivete a comunicazione@cesv.org

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