IL CONTRIBUTO DI LIBERTÀ ALLE DONNE VITTIME DI VIOLENZA

Nell'emergenza, la Regione Lazio ha allargato il tipo di spese per le quali le donne possono chiedere il rimborso. Intervista con Carla Centioni di Ponte Donna

di Alessia Morici

Sono 750mila gli euro stanziati dalla Regione Lazio per ridefinire i criteri per l’erogazione del Contributo di libertà alle donne vittime di violenza; con Determinazione Dirigenziale n. G03579 del 01/04/2020 sono state apportate infatti importanti integrazioni, sia alla platea delle destinatarie al contributo, sia alla tipologia di spese ammissibili, per rispondere con urgenza ai nuovi bisogni generati dall’emergenza epidemiologica del Covid 19 ed aiutare tutte quelle donne, che, iniziato un percorso di autonomia, rischiano ora di ritrovarsi senza un lavoro o nell’impossibilità di accedere facilmente a reti di sostegno familiari o amicali.

Ne parliamo con Carla Centioni, presidente dell’APS Ponte Donna, che da poco più di un anno gestisce, insieme alla Cooperativa Sociale Prassi e ricerca, il Centro Antiviolenza Marielle Franco, con sede a Nettuno, ma che, essendo parte del sovrambito distrettuale  RM 6.4 e 6.6, serve anche i comuni di Anzio Ardea e Pomezia.

 

Contributo di libertà alle donne vittime di violenza
Carla Centioni, presidente dell’associazione Ponte Donna

«In un anno», ci racconta Carla, «abbiamo preso in carico e costruito percorsi di fuoriuscita dalla violenza per più di 100 donne: una richiesta di aiuto sempre crescente, che ha fatto sì che non ci potessimo fermare davanti al Covid ed in questo periodo, nonostante l’emergenza, come équipe abbiamo deciso di rimanere aperte, mantenendo tutte le accortezze del caso: dispositivi di protezione individuale e la distanza sociale. Abbiamo però introdotto anche mezzi telematici per le consulenze legali, penali e civili».

Ci sono nuove difficoltà nell’operare in questo periodo?
«È aumentata l’angoscia, la paura che si blocchino i percorsi di uscita dalla violenza come anche le udienze in Tribunale. Quando si parla di centro antiviolenza si pensa esclusivamente al maltrattamento e alla messa in sicurezza, ma oltre a queste situazioni ci sono anche quelle che sembrano apparentemente meno emergenziali, ma che poi di fatto impediscono l’autonomia: l’attesa dell’Udienza Presidenziale per l’affido dei figli, per il loro mantenimento o l’assegnazione della casa coniugale, ad esempio. Situazioni che oggi rischiano di rimanere sospese».

Dalla tua esperienza l’emergenza Covid ha creato nuovi bisogni nelle donne vittime di violenza?
«Nell’ultimo periodo, in contrasto con il trend dei dati nazionali, nel nostro territorio le richieste di aiuto sono aumentate. L’H24 nelle ultime settimane squilla più del solito e solo dal  3 al 7 aprile abbiamo preso in carico ben 5 donne. Sicuramente c’è più paura: l’epidemia ha destabilizzato l’umore nelle persone che vivono situazioni di “normalità”, figuriamoci in quelle donne costrette a stare in casa con l’uomo che le maltratta. Ora più di prima vivono nel terrore e nello stesso tempo nella mancanza di proiezione e speranza nel futuro. Per questo il telefono H24 è sempre in funzione. Il metro di misura dell’angoscia che ha provocato il Covid 19 possiamo determinarlo dai colloqui, che sono soprattutto di rassicurazione rispetto alla prosecuzione della progettualità che insieme avevamo programmato. La paura di non farcela, la perdita delle entrate economiche per il lavoro che si è bloccato, i figli a casa…»

Questo provvedimento che integra il Contributo di libertà ha quindi centrato il bersaglio secondo te? 
«Certamente si. Il Contributo di libertà è per sua natura uno strumento malleabile, che può adattarsi anche a situazioni emergenziali come questa ed è frutto di processi di partecipazione e condivisione. Come centri antiviolenza abbiamo sempre avuto ottimi rapporti con l’assessorato alle Pari opportunità, a partire dal 2013, quando insieme abbiamo costruito l’attuale Legge N° 4 approvata a marzo 2014. Un dialogo che ha permesso di far comprendere alla politica i bisogni reali delle donne. È così che nasce il Contributo di libertà, un contributo ad hoc per le donne che subiscono violenza, con lo scopo di facilitarne l’avvio verso l’autonomia e l’autodeterminazione».

 

Contributo di libertà alle donne vittime di violenzaA chi è diretto il Contributo di Libertà?
«All’inizio solo alle donne che uscivano dalle case rifugio, poi è stato esteso anche alle donne che si rivolgono ai CAV (Centri Anti Violenza). Normalmente sono 5.000 euro di rimborsi per affitto, utenze, spese condominiali, rimborsi di acquisto di elettrodomestici. La richiesta parte dal CAV stesso,  attraverso una relazione che descrive per ogni donna il percorso di autonomia intrapreso. A queste fondamentali spese, che aiutano la donna a riacquisire i propri spazi di libertà, possono essere aggiunte cure mediche (sono i costi riabilitativi causati  dai danni indotti dalle violenze), ma anche spese per la formazione, corsi di aggiornamento e di riqualificazione, a dimostrazione che quando il Terzo settore dialoga con la politica, si costruiscono buone prassi capaci di superare la logica assistenzialistica, per dar vita a percorsi di autonomia sostenibili nel tempo. Ora, a causa del Covid 19, molte donne che avevano iniziato il percorso di autonomia rischiano o hanno già perso il lavoro e si trovano impossibilitate a provvedere ai bisogni essenziali propri e dei loro figli. La Regione ha quindi reso ammissibili anche le spese per beni di prima necessità, per farmaci e articoli medicali, ma anche quaderni, colori, materiale scolastico, materiale informatico per la didattica a distanza di eventuali figli eccetera».

Terminata l’emergenza, quali saranno le sfide da cui ripartire per la lotta alla violenza sulle donne?
«La necessità è quella di adeguarci  alle richieste che ci vengono fatte dall’UE: prima tra tutte quella di rispettare lo standard che prevede un Centro Antiviolenza ogni 40.000 mila abitanti: questo darebbe la possibilità a tutte di essere messe in sicurezza. Inoltre, l’impasse generata dal sovraccarico di lavoro nei tribunali non permette l’applicazione del Codice Rosso, (Legge del 19 luglio 2019),  una legge che possiamo definire “monca”, perché è priva di finanziamenti per ampliare l’organico nei Tribunali. Ciò di fatto impedisce i tempi brevi previsti per lo svolgimento delle indagini e per l’avvio del procedimento penale nel caso di reati come maltrattamento in famiglia, stalking, violenza sessuale, e, di conseguenza, rallenta l’adozione di provvedimenti di protezione delle vittime, rendendoli inefficaci.

In conclusione, permettetemi di dire, per i centri antiviolenza il CoronaVirus c’è tutto l’anno. La violenza sulle donne è un’emergenza strutturale nella nostra società e noi lavoriamo sempre nella criticità. In periodo di crisi è certamente più facile mettere in discussione i diritti delle donne, ma sempre dobbiamo tenere alta la guardia: la lotta contro la violenza sulle donne è una lotta di civiltà che ci riguarda tutti ogni giorno dell’anno».

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