DELALTER, DALL’ALTRA PARTE: SIAMO TUTTI MIGRANTI

Il nuovo album de I Luf, combat folk band lombarda, è nato e vive in nome dei migranti. E il loro tour sarà dedicato al volontariato. Perché ognuno di noi può togliere una bara dal mare

di Maurizio Ermisino

«Tra gli ulivi e le lampare adesso crescono le bare, nel sorriso di chi parte ho visto scritto libertà, il mio sogno e il mio futuro li hanno spenti con un muro, apro gli occhi e non mi sveglio buona notte libertà».
Sono i versi, le immagini potenti di Un altro altrove, il brano che apre Delalter, il disco della combat folk band lombarda I Luf. Delalter, nel dialetto della Valcamonica, valle in provincia di Brescia, significa dall’altra parte. E I Luf provano a fare proprio questo: mettersi dall’altra parte del mare, dall’altra parte dei muri, raccontare chi viaggia, capire cosa c’è dentro queste persone che «hanno un solo sogno, quello di poter sognare», come cantano in Ave Maria Migrante, preghiera laica dove la Madonna diventa «madre di tutti i clandestini», che dopo aver «pianto suo figlio sulla croce ascolta le lacrime di chi non ha più voce».
Delalter è un concept album dedicato al viaggio, quel viaggio che è spesso sogno ma per qualcuno, in preda alla disperazione, diventa fuga. E quando il viaggio diventa fuga il viaggiatore diventa migrante. Siamo stati tutti, siamo o saremo migranti. I Luf ci raccontano le loro storie con una musica potente, allegra, terapeutica, un folk che profuma di Irlanda e di birra, con lo spirito dei Clash e Springsteen e la poesia di De Andrè. Un viaggio “in direzione ostinata e contraria”.
I Luf porteranno il loro disco in concerto in qualunque posto voglia accogliere il loro messaggio: l’idea è girare in strutture di ogni tipo e mettere il concerto a disposizione del volontariato sociale, con il prezzo più basso possibile, e dare parte del ricavato a progetti di solidarietà rispetto all’accoglienza. Chi è interessato a ospitare il concerto può contattare I Luf. Ne abbiamo parlato con Dario Canossi, fondatore, cantante a autore della band.

Da dove siete partiti per raccontare i migranti di oggi?
«Vengo dalle valli bresciane, dove da sempre siamo migranti, e mio padre è emigrato: dopo una vita da minatore in Svizzera e Germania si è trasferito in Brianza, dove vivo oggi. Siamo tutti un po’ migranti. Partendo dalle mie radici mi è interessato andare a cercare di elaborare il tema che è di drammatica attualità, ma lo è da dieci anni. Abbiamo cercato di fare un disegno a modo nostro, di come vivevamo noi questa situazione davvero difficile e complessa, al di là delle mode e del momento. Dietro ai viaggi ci sono delle persone: ci interessava pensare alle facce che raccontano la disperazione dietro ogni viaggio».

Come nasce “Ave Maria Migrante”?
«Dall’esperienza quotidiana di essere nato e allevato a pane e “Ave Maria”, anche se poi si cresce e le cose cambiano. Io mi sono trasferito in un posto della Brianza cattolicissimo, che poi è la patria di chi vuole tirare su i muri e chiudere le porte. Mi interessava questa dicotomia tra la fede che dice alcune cose e una pratica quotidiana che ne dice di completamente diverse. E da qui la necessità di ricordare che Maria era migrante: scappava da un posto per dare alla luce questo personaggio che avrebbe cambiato la storia. E ricordare a tutti che non è sufficiente andare in chiesa, inginocchiarsi, pregarla e poi uscire e mandare a casa “i negher” come dicono qua. La cosa che mi ha stupito è che 15 giorni fa Papa Francesco abbia detto che la Madonna era la prima migrante. Speriamo che mi paghi almeno la SIAE… L’uomo che dice le cose più sagge sulle migrazioni è lui. Per noi vuol dire tenere la barra dritta, dire: è facile essere cristiani, ma esserlo vuol dire anche ricordarsi qual è il messaggio vero».

«Nel sorriso di chi parte ho visto scritto libertà». Vi immedesimate molto nei sogni e nelle speranze di chi lascia la propria terra…
«Anche loro hanno un cuore diviso a metà. Da un lato c’è la tristezza di dover lasciare il tuo posto, la tua casa, la tua realtà. Dall’altra il sogno e la speranza infinita di poter costruire una vita nuova. È questo il sogno del viaggiatore, ed è il sogno disperato del migrante. Il sogno del viaggiatore è fatto solo di positivo, perché è lui che decide di partire; il sogno del migrante è una disperata necessità di partire. Mi immagino queste persone che riescono contemporaneamente a piangere e sorridere, perché hanno una speranza nuova, ma devono lasciare la propria terra, la propria casa, il proprio uomo o donna, i propri figli. Ma c’è sicuramente la speranza, perché senza quella non ci sarebbe il viaggio».

«Chi ha messo le vele alle bare lo sai solo tu» cantate in “Bare a vela”. In questo brano sembra uscire il discorso delle responsabilità. Che ne pensa?
«Che ognuno di noi si debba fare i conti in tasca. Sono stanco di dire che la colpa è degli altri. La colpa è nostra, se vogliamo vivere al livello in cui siamo dobbiamo accettare tutta una serie di compromessi, e il fatto che la nostra ricchezza è nella povertà degli altri. È fatta dal vendere le armi, e le armi sono usate per le guerre. Se appoggiamo regimi pazzeschi in nome di un ordine mondiale, andiamo ad appoggiar cause e andiamo a casa degli altri a dire cosa fare è chiaro che tutto questo succede. Sì, è colpa di… Ma è colpa nostra, di uno sviluppo che ormai non è più sostenibile. E l’anello debole della catena salta. Ma è una catena che abbiamo costruito noi, anello per anello. Noi singoli che abbiamo bisogno di tanta benzina per viaggiare compriamo il petrolio e diamo la possibilità a chi ce l’ha di fare ciò che fa. Vanno riviste le colpe in maniera più equilibrata. Ognuno di noi può togliere qualche bara dal mare, ma è più facile andare su Facebook dicendo bastardo te, bastardo lui, bastardo l’altro».

Cosa dovrebbe fare l’Europa?
«Il discorso dell’accoglienza è importante: c’ è un dramma, e bisogna accogliere. È come dire: c’è il terremoto, bisogna ricostruire. Ma vediamo di evitare che il terremoto possa fare danni. Quindi va bene accogliere, ma cerchiamo in tutti i modi di ridare a quei paesi una tranquillità, una giustizia, ridiamo a quei paesi le loro ricchezze. E allora forse anche i flussi si fermeranno: se mio padre avesse trovato lavoro in Valcamonica non sarebbe dovuto andare in Svizzera».

delalter
«Anche i temi più complessi cerchiamo di stemperarli con una musica che dia leggerezza. La gente viene ai concerti e per due ore balla e si diverte senza staccare il cervello»

Che importanza ha per voi il dialetto?
«In fondo sono nato parlando dialetto. Purtroppo poi qualcuno si è appropriato del dialetto come se fosse una cosa propria, ma non è così. Il dialetto non è della Lega: si può essere lombardi senza essere padani. Per me scrivere in dialetto è importante perché vuol dire essere quello che sono. E poi la metrica ti permette un costrutto musicale diverso. È anche una necessità artistica. Le tronche, le aspirate del dialetto bresciano ti danno la possibilità di fare cose che in italiano non puoi. È come l’inglese, che è molto rock’n’roll…»

Il vostro altrove non è solo nei temi ma anche nella musica. Che musiche vi influenzano?
«Noi abbiamo un ascolto così molteplice come gruppo, dei gusti musicali così diversi che alla fine arriva di tutto. Io amo i Clash, Springsteen, il folk irlandese e la musica africana. Quando scrivi metti tutto in un crogiuolo, e viene fuori la prima linea melodica. L’arrangiamento è collettivo, e viene fuori la nostra firma, quello che siamo noi: un gruppo di dopolavoristi di lusso che si divertono a fare questa cosa. Anche i temi più complessi cerchiamo di stemperarli con una musica che dia un minimo di leggerezza, che permetta di divertirsi. Ci dicono che siamo terapeutici. La gente viene ai concerti e per due ore balla e si diverte senza staccare il cervello».

La Lombardia è spesso associata ai razzismi per via di certi personaggi e certi movimenti. Ma si dimostra spesso una terra molto solidale. Che terra è la Lombardia e come coesistono questi aspetti?
«Esistono due Lombardie. Esistono le valli, dove alcuni movimenti sono nati e si sono rafforzati. E sono i posti dove la solidarietà ha il massimo dell’espressione. E poi c’è la Padania, cioè la pianura, che ha vissuto il passaggio da civiltà contadina a civiltà industriale in maniera troppo veloce. Questo ha portato la mentalità contadina, quella dell’oculatezza, anche là dove non era più necessario, quando è arrivata la ricchezza. Le persone sono rimaste chiuse, egoiste, ma è l’egoismo di chi aveva fame. In questo passaggio così veloce si sono poi inseriti questi movimenti che sono andati a riproporre la vecchia civiltà contadina: hanno preso alcuni valori, o il dialetto, che erano una cosa positiva, e li hanno girati in negativo. Per me la differenza è una ricchezza, per loro diventa un limite. La Lombardia è un cubo con tante facce, tutte figlie di una corsa sfrenata dell’industria senza passaggi. Nelle valli, dove la cosa è avvenuta più lentamente, c’è molta più umanità. Purtroppo c’è anche molta ignoranza, per cui alcuni fenomeni legati alla pancia passano più velocemente. Se nelle valli vai e parli con la gente riesci a fare dei grandi passi avanti. Se parli alla gente e riesci a portarli fuori dall’ignoranza, le cose cambiano. Invece nell’altra Lombardia, quella ricca, la drammatica realtà di questi movimenti ha preso anche persone dalla cultura superiore. E in questo caso è molto più difficile da scalfire, diventa un’ignoranza solida. È un’ignoranza istruita, e difficilmente la combatti. E vengono fuori i personaggi che vediamo adesso».

L’immagine in copertina è di Alessandro e Veronica Roncaglione

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