FRANCESCO PIOBBICHI: IL MARE SPINATO UCCIDE. E CANCELLA I CORPI

Francesco Piobbichi è un “disegnatore sociale”. Nelle sue opere racconta la sofferenza dei migranti, il mare spinato e il bisogno di riappropriarsi di un narrare sociale e collettivo

Francesco Piobbichi non si definisce un’artista, ma un “disegnatore sociale”. Una persona che racconta la sofferenza dei migranti, avendola condivisa in prima persona, nella vita prima che nei disegni. Piobbichi infatti è anche un operatore di Mediterranean Hope, il progetto sulle migrazioni della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia. Ma non lo considera affatto un doppio ruolo, anzi. «Il disegnatore sociale è un operatore di comunità» ci spiega. «Il fatto è che noi che lavoriamo sul sociale, che facciamo comunità, abbiamo smesso di raccontare, delegando il racconto a chi lo vende, nel bene e nel male. Arrivano e ci saccheggiano, parlano a nome nostro, vendono il racconto e poi se ne vanno. Quanti libri sono stati fatti, quante persone sono arrivate per raccontare, se ne sono andate e non li vedi più? È un saccheggio del racconto. L’arte non esiste» continua. «Esiste solo e sempre il linguaggio, l’arte serve solo ad avvicinare e sostenere il linguaggio. Io non mi definisco artista. Mi definisco un disegnatore e utilizzo l’arte per sostenere la ricostruzione della società». Abbiamo già parlato di Francesco Piobbichi in occasione di Dambe So, l’ostello per i migranti aperto in Calabria, e anche de I Senza Nome, il film di Francesco Paolucci sulle lapidi create per i migranti sepolti al cimitero di Lampedusa. Questa è la sua storia di disegnatore sociale.

Farsi carico del racconto rispettando le persone

Francesco Piobbichi
«Si tratta di ricostruire una narrazione che rompe con la pornografia del dolore, l’idea molto colonialista di utilizzare il dramma e le persone rese inferiori attraverso la procedura della frontiera, che è un luogo di inferiorizzazione naturale»

La storia vuole che Francesco Piobbichi sia diventato un disegnatore sociale una sera a Lampedusa dopo aver appreso di un naufragio. Era seduto in un bar, aveva davanti delle matite dell’Ikea e ha cominciato a disegnare, facendo venire fuori tutta la rabbia di quei momenti, e a colorare le persone che stavano annegando. È nato così il suo tratto, un segno vorticoso che rappresenta il dolore, la morte, la speranza. «Ho iniziato a disegnare quando andavo allo stadio, come ultras del Perugia, disegnavo le sciarpe, le magliette» ci ha raccontato Francesco Piobbichi. «Non ho fatto un istituto artistico, ma ho sempre avuto voglia del disegno». «A un certo punto sono andato a Lampedusa. E lì ho trovato il “tratto”, come elemento di necessità, di ragionamento sulla riappropriazione del racconto, in qualche modo contro le dinamiche estrattive che si erano prodotte su palcoscenico della frontiera. Una dinamica che ha tolto il racconto sociale, ha tolto la parola al migrante, lasciandogli l’unica possibilità che è quella della testimonianza e non del protagonismo» ci spiega. «Si tratta di ricostruire una narrazione che rompe con la pornografia del dolore, l’idea molto colonialista di utilizzare il dramma e le persone rese inferiori attraverso la procedura della frontiera, che è un luogo di inferiorizzazione naturale. Si tratta di rompere questo meccanismo facendosi carico del racconto rispettando le persone che narri, perché non le esponi dal punto di vista visivo. La necessità di rompere la pratica coloniale che ha due sponde – quella umanitaria e quella dell’emergenza – che comunque finiscono tutte e due sullo stesso concetto, l’esposizione del migrante, molto spesso il bambino migrante. Che non viene filtrato come il bambino italiano. È un po’ come quando, negli anni Trenta, l’Istituto Luce faceva vedere le nudità delle donne etiopi perché erano inferiori, mentre le donne italiane non dovevano far vedere nulla».

Mediterraneo, un genocidio indiretto  

Ma il disegno, nell’idea di racconto sociale di Francesco Piobbichi, ha un’altra funzione importante. «Vuol dire riprendere in mano il racconto sociale come racconto collettivo, l’idea di dare memoria ai senza nome, alle persone che sono morte nel buco nero del Mediterraneo» ci spiega. «Il buco nero è qualcosa che ha che fare con la cancellazione non solo del corpo, ma anche della memoria. Mentre la fossa comune lascia qualcosa, il buco nero non lascia niente. Questo secondo me ci rimanda a una riflessione più profonda, il tema del genocidio indiretto» continua. «Nella storia ci sono stati genocidi diretti, massacri che tendono alla cancellazione dell’etnia e del corpo. E poi ci sono i genocidi indiretti, quelle forme in cui nella storia viene lasciato alla natura il suo compito senza alcun soccorso. Far morire di fame o di sete un popolo, farlo morire nel mare Mediterraneo».

I migranti, martiri della frontiera e della libertà

Francesco Piobbichi
«Dobbiamo costruire una nuova società morale, che questo sistema dentro al quale viviamo, e la frontiera ne è l’esempio, ha distrutto».

Avviene allora una sorta di cancellazione del migrante. Perché? «Perché il migrante porta con sé una domanda di libertà e di giustizia» ci spiega Francesco Piobbichi. «E anche di risarcimento, per i nostri interventi colonialisti. Se uno ci pensa in maniera più seria la libertà di movimento oggi è un tema politico. Io i migranti li chiamo martiri della frontiera e della libertà, perché oggi nelle acque del Mediterraneo e dell’Occidente, si gioca una partita di giustizia. I più poveri nel mondo rivendicano il diritto alla mobilità come i più ricchi. Questo si vede da quello che è successo. Pensiamo al sommergibile dei miliardari, dove tutto si è mobilitato per il diritto alla vita al soccorso. Cosa che in altre occasioni non avviene».

Il mare è spinato è diventato una frontiera d’acciaio

Ed è da questo discorso che nasce il concetto di mare spinato, che è alla base delle illustrazioni di Francesco Piobbichi. «Il mare è spinato perché è diventato una straordinaria frontiera d’acciaio che uccide, degrada e cancella i corpi» ragiona Piobbichi. «Uccide, degrada e interiorizza, perché chi sopravvive al mare lascia sempre in quel mare la propria dignità. Il migrante che arriva attraverso il mare è una persona che poi viene interiorizzata a vita dalla legge della frontiera. È come se quel mare spinato che non l’ha ucciso gli rimanesse addosso come una maledizione. Nei miei disegni il filo spinato è sempre centrale, e nel caso dei braccianti il filo spinato è al collo. È una continua corsa contro il tempo per non diventare un cittadino di serie B. Il mare spinato diventa cornice di questo racconto». Piobbichi ci racconta che, con sé, porta anche dei disegni che gli stessi migranti gli hanno lasciato. «Permettono di avvicinarsi al significato senza nemmeno il bisogno della parola» racconta. «Quando vedi un disegno sulle carceri libiche non hai il problema di capire chi ha scritto o quale linguaggio ha. È chiaro, evidente, si capisce».

Costruire una nuova società morale

Francesco Piobbichi
«Perché non ci siamo fatti carico, in termini collettivi, oltre che dell’accoglienza solidale, del racconto?»

Così, da anni, Francesco Piobbichi va in giro per l’Italia usando il disegno come racconto. «A differenza della foto, il disegno ha una forma di elaborazione più profonda, più creativa e si identifica nell’essere umano. I miei racconti sono racconti emozionali molto duri, dentro ai quali narro cose che ho vissuto, le mie impressioni. Che in qualche modo hanno una dimensione curativa: per me, ma soprattutto per chi ascolta, per la comunità. Perché la memoria è un elemento curativo». «Quando la gente mi chiede: ma noi cosa possiamo fare?» continua. «Noi dobbiamo costruire una nuova società morale, che questo sistema dentro al quale viviamo, e la frontiera ne è l’esempio, ha distrutto. La frontiera è un luogo dove tutti i significati della distruzione della moralità assumono un significato talmente esemplare che è quasi banale. La solidarietà ai poveri, il volerli salvare, diventa un crimine. Il privilegio, questa idea di non rispettare nessun tipo di moralità, diventa un valore. L’ingiustizia è in fondo al mare perché la miseria è diventata una colpa. Non c’è più neanche un ragionamento sulle cause che determinano il fatto che le persone non possano restare nel proprio territorio, non possano muoversi e non possano tornare». «Nel mio racconto uso i miti» aggiunge. «Medusa è diventata un essere che ha i capelli fatti di filo spinato, perché è il filo spinato con il quale separano ogni contesto sociale, e poi ha lo sguardo che mette paura. Perché loro, attraverso la paura, impediscono il pensiero critico».

Nessuno ha riflettuto sui segni che queste persone lasciavano

Così Francesco si fa carico della memoria e continua un racconto che, fatto in questo modo, non fa nessuno. «Come è possibile che abbiamo avuto centinaia di migliaia di persone ospitate e nessuno si è mai preso carico di riflettere sui segni che queste persone lasciavano, su come comunicarle?» si chiede. «C’è stato sempre questo elemento tecnico che li ha racchiusi nella casella del povero migrante o in quella dell’ordine pubblico. Perché non ci siamo fatti carico, in termini collettivi, oltre che dell’accoglienza solidale, del racconto?» continua. «Questo è un grande limite: il mondo del Terzo Settore ha incasellato il migrante dentro un ragionamento schematico, spesso economicista, che lo ha reso privo di sguardo e parola. È un’accoglienza di tipo coloniale, anche se fatta in buona fede».

Nelle immagini: disegni di Francesco Piobbichi, che si possono vedere qui.

FRANCESCO PIOBBICHI: IL MARE SPINATO UCCIDE. E CANCELLA I CORPI

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