GAZA. INSIEME PER CONTENERE IL CRONICO TRAUMA DELLA GUERRA

52mila palestinesi di cui 18mila bambini uccisi, 1400 medici uccisi e torturati, blocco degli aiuti con 70mila bambini al quarto e quinto livello di denutrizione, 50mila donne incinte senza cure. È possibile dire ciò che va detto su Gaza? Dal libro di Maurizio Bonati per affrontare un tema duro e attuale: Il Cronico Trauma della Guerra

di Claudio Tosi

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Casa Della Memoria e della Storia, 13 maggio, la società benefit Zadig, il Circolo Gianni Bosio e la Federazione Italiana dei Cemea prendono spunto dal libro di Maurizio Bonati per affrontare un tema duro e attualissimo: il cronico trauma della guerra. Apre l’incontro il canto di Mercedes Sosa, contagioso e universale, come ci ricorda Fiorella Leone del Circolo Gianni Bosio; un canto che, pure in un inno che si rivolge a Dio, ha un messaggio Gramsciano: “A Dio chiedo solo questo, che la guerra non mi sia indifferente” e dal primo all’ultimo intervento su questo punto non ci sono dubbi.

Il cronico trauma della guerra.
Spaziando tra conflitti passati e presenti, Bonati mette in guardia su cosa significhi “ricostruire” e quanto siano carenti e inumani i criteri con i quali si pianifica questo aspetto

La battaglia per le parole oltre i numeri della guerra

Angelo Stefanini parte dritto dal cuore del problema, lo sterminio a Gaza, con un interrogativo magistrale: è possibile dire ciò che va detto? Siamo in grado di usare le parole giuste per descrivere questa situazione che ha superato tutti i record in termini di capacità distruttiva nel presente e che proietta la scia della distruzione per lunghi anni a venire? I dati portati da Angelo, che da medico volontario ha partecipato a molte missioni in Palestina con il PCRF, sono disperanti: 51 milioni di tonnellate di macerie piene di cadaveri in decomposizione, 90% di civili sfollati, 300mila abitazioni distrutte, 52mila palestinesi uccisi, di cui 18mila bambini, centinaia di giornalisti e operatori umanitari uccisi intenzionalmente, 1400 medici uccisi e torturati, blocco degli aiuti con 70mila bambini al quarto e quinto livello di denutrizione (su una scala da 1 a 5), 50mila donne incinte senza cure, danni irreversibili agli ecosistemi naturali. Ma ai numeri del massacro si aggiunge l’ombra lunga delle conseguenze della distruzione: il tasso di mortalità nella popolazione palestinese è salito al 230/1000, quindi è prevedibile che circa mezzo milione di persone moriranno per le conseguenze della guerra nel prossimo anno. E ai numeri della guerra, ci sferza Angelo Stefanini, si aggiunge un’altra battaglia, quella per le parole. C’è un sottacere colpevole che diventa negazione e non riesce a farsi denuncia. La forza dell’apparato censorio Israeliano impedisce il semplice richiamo alla responsabilità degli atti compiuti dal Governo, dall’esercito o dai coloni israeliani. Per qualsiasi denuncia si viene tacciati di antisemitismo e messi alla berlina con conseguenze su carriera, lavoro, famiglia, ricorda Stefanini, e dicendo ciò riprende in pieno la denuncia fatta da un esponente del LƏA a proposito delle firme sull’appello No alla pulizia etnica, L’Italia non sia complice, apparso lo scorso 26 febbraio.

«Disarmare le parole per disarmare il mondo»

Naturalmente la parola chiave è: Genocidio. E cioè un atto commesso con l’intento di distruggere tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come si sente affermare pubblicamente da politici e autorità israeliane e come accusano studiosi e autorità internazionali. E intorno a questo nodo alla Casa della Memoria si discute e anche qui si apre il dibattito con la domanda di una amica (Maria Fausta Adriani) che chiede e si chiede come sia possibile integrare il trauma, che passa di generazione in generazione, di chi vive nel mondo ebraico e che alla parola Genocidio aggancia il ricordo della Shoà e di quanto subito dal proprio popolo, che rimane unico e intatto nella loro considerazione. Come spezzare il ciclo dell’odio, come dare nome alle cose che vediamo con evidenza cruda, come riattivare una resistenza all’ineluttabilità della Guerra, le domande sono tante, profonde e complesse. Eva Benelli, scienziata e studiosa ci invita a ripartire dai dati, che sono i più efficaci strumenti di lettura dei fenomeni e del loro impatto. E come comunicatrice di Zadig ribadisce la necessità di un uso consapevole delle parole, proprio citando quelle con cui Papa Leone XIV ha voluto segnare una continuità con il pensiero di Francesco: «Disarmare le parole per disarmare il mondo» e sottolinea come le motivazioni della guerra siano sempre presentate come alte “Difendere la libertà”, ma in realtà si rivelino sempre altre (accordi per le materie prime, come oggi gli USA in Ucraina) e che dobbiamo sempre confrontare le semplificazioni dei vincitori con la complessità di ciò che muove la guerra.

Il cronico trauma della guerra. Cosa e come ricostruire?

Ed interviene ora Maurizio Bonati, l’autore del libro Il cronico trauma della Guerra (Il Pensiero scientifico Editore 2024), che Fiorella Leone definisce prezioso, perché è in grado di analizzare la guerra, ma collegandola alla cultura, libri, film, dischi, trasportandoci dal saggio al racconto che ci avvicina e ci permette di fare i conti con la guerra, proiettandoci verso la Pace. E Bonati, spaziando tra conflitti passati e presenti, ci mette in guardia su cosa significhi “ricostruire” e quanto siano carenti e inumani i criteri con i quali si pianifica questo aspetto, che spesso pensa più alle cose che alle persone e quasi mai alla loro qualità della vita. Dopo cinquant’anni in Vietnam si muore ancora dell’Orange Agent usato dagli statunitensi e tumori e deformazioni attuali non furono certo messe nel conto della “ricostruzione”, come non lo sono state le bombe sganciate sulla Bosnia, e le mine antiuomo disseminate nel Donbass.  Ma la medicina offre un criterio rigoroso, che è quello dell’aspettativa di vita, trasversale a tutti i campi, dal sanitario all’edilizio, che mette in chiaro i Cosa, e i Come e soprattutto individua le responsabilità dei Chi. Cosa si ricostruisce? Chi si impegna a ricostruire? Con quali fondi? Maurizio, ricordandoci che le vittime in una guerra sono da entrambe le parti e che anche tra gli oppressori sono vittime gli obiettori, chi si nega alla guerra, perdendo la faccia rispetto al proprio popolo, chiede qualcosa di più dall’intellighenzia israeliana, troppo allineata con i dictat negazionisti del governo Netanyahu, perché contribuisca a ricostruire una strada per riannodare i valori persi: l’immaginario, la ricostruzione, la possibilità del perdono.

Il cronico trauma della guerra.
Non è alla Guerra che possiamo lasciare il potere di imbarbarirci con la sua moralità in bianco e nero. Noi tutti abbiamo la possibilità e la responsabilità della Pace

La Pace, da preparare e rendere concreta e quotidiana

Su questa sollecitazione si apre l’ultimo intervento, che porta la riflessione di un educatore e parte da una domanda sul qui e ora, su cosa sia possibile fare e cosa, drammaticamente, non si stia facendo. Le guerre sono un male necessario dell’umanità? La nostra condanna è una condanna efficace o solo di facciata? Possiamo chiedercelo partendo da uno sguardo all’immaginario dei bambini, dalla loro idea di guerra e pace, dai loro disegni sul tema. E quelli che abbiamo ci mostrano come la Pace sia un terreno ideale, fatta di simboli e paesaggi bucolici, spesso senza esseri umani. La Pace non sembra un concetto vissuto, è piuttosto eterna o insondabile, ma non si costruisce, non si agisce: “È” e qualsiasi movimento brusco sembra poterla rompere. L’azione, per i bambini, sta nella guerra dove ognuno è il paladino del Bene e, come canta Calvino in Oltre il Ponte, ci fa immaginare contrasti assoluti: “tutto il male avevamo di fronte, tutto il bene avevamo nel cuore”, una frase limpida, per quell’epoca di Resistenza al Nazi Fascismo, ma anche disperata, perché disumanizza l’altro senza appello. Ma allora, chi tiene alla Pace ha un compito, di non invocarla, ma di prepararla rendendola più umana, più concreta, più quotidiana. Siamo tutti figli della Divina Commedia, in cui tutta l’azione sta nell’inferno e il paradiso lo conosciamo in pochi. Ma in questa piega della storia in cui un nuovo Papa inizia il suo pontificato, scrive Roberta De Monticelli sul Manifesto (La fossa del Leone – Agostiniano senza mezze verità (anche sulle armi) 15 Maggio 2025), la sua azione sarà tutta tesa a dare il giusto senso alle parole, perché da quelle discende la nostra responsabilità di ciò che scegliamo di essere e di come scegliamo di comportarci in questa “Aiuola che ci fa tanto feroci” (Cfr anche “L’Aiuola che ci fa tanto feroci – Antologia contro la guerra, obiezione di coscienza, disobbedienza civile” a cura di Giulio Marcon edito da Altreconomia collana Le Talpe) che Dante scorge dall’Empireo nel XXII canto del Paradiso. Non è alla Guerra che possiamo lasciare il potere di imbarbarirci con la sua moralità in bianco e nero. Noi tutti abbiamo la possibilità e la responsabilità della Pace. Di quella Pace “disarmata e disarmante” che non può che nascere da una scelta interiore, anche di fronte ai torti subiti: quella del rifiuto della disumanizzazione dell’altro e della generosa capacità di perdono. Oggi sarebbe una beffa chiedere questo ai Palestinesi affamati e uccisi, ma potremmo chiederci insieme, cercando una risposta alla domanda su chi sia “autorizzato” ad usare il termine Genocidio, come si possa riuscire a stemperare l’assolutezza delle nostre “ragioni” ritrovando, con il tempo e l’incontro, il senso della relazione e l’essenza della reciproca umanità. Sarà allora che l’altro non sarà costretto, dalla nostra fissità di giudizio, a restare con l’etichetta del “Nemico” cucita addosso e si potrà ripartire, con una nuova speranza, a fare della Pace una responsabilità del presente e non un ideale sfuggente come l’orizzonte.

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Il cronico trauma della guerraIl cronico trauma della guerra. Donne e bambini le prime vittime
Maurizio Bonati
Il Pensiero scientifico Editore, 2024
pp. 256, € 22

 

 

 

 

 

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