GIANLUCA CANTISANI. IL VOLONTARIATO CHE CAMBIA E ANTICIPA

Il punto di vista di Gianluca Cantisani sui cambiamenti che attraversano il volontariato e le forme emergenti di attivismo civico, a cui è dedicato il secondo dei tre World cafè verso il convegno CSV Lazio del 16 giugno

di Chiara Castri

Gianluca Cantisani ha una visione del volontariato basata su un’esperienza di lungo corso ed un osservatorio privilegiato dato dall’aver vissuto ed operato in tre aree del nostro paese molto diverse tra loro. Trent’anni a Milano – da dove inizia con il terremoto dell’Irpinia il suo volontariato a tutto tondo -; altri trenta a Roma, dove, da genitore, è tra i fondatori e poi volontario dell’Associazione Genitori Scuola Di Donato, nel quartiere Esquilino. Oggi è in Calabria, dove le prospettive di vita condizionano anche l’agire sociale, perché «se bisogna emigrare per cercare lavoro, il volontariato neanche parte». Il servizio civile nella cooperazione internazionale e l’educazione alla pace, con la realizzazione della mostra sull’intercultura e la lotta ai pregiudizi “Gli altri siamo noi” che gira l’Italia da 28 anni.  Cantisani ha portato la sua esperienza nel Movi, Movimento di Volontariato Italiano, di cui oggi è presidente nazionale. A lui l’introduzione del secondo World cafè previsto per domani, 25 maggio, su volontariato, cambiamento, nuove forme di attivismo civico, in preparazione del convegno “Costruire il presente immaginando il futuro. Volontari ed Associazioni in dialogo per lo sviluppo di comunità e territori” promosso da CSV Lazio per il 16 giugno, occasione di riflessione e confronto su alcuni temi oggi prioritari rispetto al ruolo e all’azione del volontariato. (Il primo World cafè è stato introdotto da Enrico Serpieri, leggi l’intervista).

Con Gianluca Cantisani abbiamo provato a fare un quadro sui cambiamenti che stanno attraversando il volontariato, dalle forme emergenti di attivismo civico, che non sempre hanno bisogno di una formalizzazione, al rapporto con le istituzioni e l’amministrazione condivisa.

Gianluca Cantisani
«In generale le associazioni giovanili non nascono su grandi temi, ma su temi precisi. Esperienze che, a volte, hanno bisogno di formalizzazione, altre no, ma, in ogni caso, non seguono le associazioni esistenti, ma creano qualcosa che non c’è»

A cosa pensiamo quando ci riferiamo alle nuove forme di attivismo civico? Quali le forme emergenti? Quali le peculiarità territoriali per il Lazio?

«Mentre ciascun volontario porta un approccio proprio, i fenomeni generali sono simili, ma governati da elementi che disturbano i meccanismi. Se a Milano chi ha un lavoro può fare volontariato nel tempo libero, in Calabria, se il lavoro non c’è, il volontariato neppure parte. Nel Lazio partirei da due esempi. Il primo riguarda i genitori nelle scuole. Negli anni Novanta una serie di provvedimenti ha permesso la nascita di associazioni di genitori, studenti, amici della scuola –di solito associazioni culturali, quindi fuori dalla Riforma – attorno al tema delle scuole aperte. I genitori, con il loro tempo e le loro competenze, hanno creato una comunità con risorse infinite. Quei genitori non hanno nulla a che fare con l’idea di volontariato di quarant’anni fa, non hanno bisogno di un’organizzazione e agiscono da cittadini attivi quasi inconsapevolmente, in una sorta di percorso formativo nel quale, di fatto, aiutano lo Stato a funzionare. Questa è una nuova forma di attivismo civico, che si regge sul volontariato. Le trenta associazioni di Roma, che hanno dato vita anche ad una rete, sono una realtà molto forte, che agisce sul territorio, cambia la vita alle famiglie. Avere, al pomeriggio, uno spazio aperto nella scuola gestito dai genitori vuol dire spostare lì molti dei bisogni non soddisfatti del territorio, avere un posto dove portare i bambini, sostenere le famiglie che non ce la fanno ad aiutare i figli per la lingua o il lavoro. Un discorso analogo anche sulla salute consentirebbe di mettere in piedi le nuove case della salute, luoghi dove individuare i problemi e dare risposte invece di sanitarizzare tutto». Il secondo esempio riguarda i giovani.

La sua esperienza con l’Associazione Genitori Scuola Di Donato e con Scuole aperte partecipate in rete le dà un punto di vista privilegiato sui giovani e le loro modalità di attivazione

«Le associazioni giovanili non nascono su grandi temi. Ci sono eccezioni, ma, in generale, i giovani si attivano su temi precisi: in molte province, ad esempio, associazioni giovanili nascono per dare ai coetanei occasioni culturali, luoghi per stare insieme. Il tema è non abbandonare i propri luoghi per non impoverirli e il paradosso è che quei giovani hanno ben chiaro che nessun adulto pensa a loro o, comunque, che c’è una difficoltà generazionale. Esperienze che, a volte, hanno bisogno di formalizzazione, altre no, ma, in ogni caso, non seguono le associazioni esistenti, ma creano qualcosa che non c’è. Che poi è quello che è successo a molti di noi con le nostre associazioni. Tanti adulti si attivano per sostenere i ragazzi incanalandoli in percorsi formativi, ma dobbiamo trovare il coraggio di lasciar loro spazio, favorirli nel creare un mondo nuovo. Il guaio è che le istituzioni non sono pronte: abbiamo la Riforma alternativa al Codice civile, i bandi con fondi riservati ai soli iscritti al RUNTS e tante realtà costrette ad iscriversi solo per parteciparvi. Abbiamo messo in moto un meccanismo mostruoso di burocrazia: non è l’iscrizione al RUNTS a dare affidabilità, perché il Codice civile non è stato abolito. Allora perché non dare le stesse possibilità? Ecco, questi ragazzi hanno bisogno di essere aiutati, soprattutto rispetto alla burocrazia, uno degli elementi più odiosi e faticosi».

Lei è portatore dell’esperienza del MOVI, una delle prime grandi associazioni che ha fatto la storia del volontariato. Come questa realtà si è messa in ascolto di un volontariato che sta cambiando?

«Ciò che permette al Movi di essere al passo con i tempi è il suo essere una delle poche reti trasversali, che, come tale, prova a costruire una visione d’insieme, senza sovrapporsi alle attività delle proprie associazioni. Non è quindi una rete tematica che fa sindacato, perché le lobby, che nell’aiutare qualcuno sfavoriscono qualcun altro, non hanno fatto bene all’Italia e sono il motivo per cui nelle battaglie siamo sempre divisi e perdiamo. Le reti Movi sono luoghi di confronto di punti di vista diversi, ma trovare una sintesi comune, oggi, vuol dire tenere conto anche di chi è fuori dalla Riforma. Due anni fa abbiamo approvato uno statuto che parte dalla Riforma, ma la supera, accogliendo tutte le altre realtà che esistono sul territorio. Perché il ruolo che abbiamo dato al volontariato organizzato storico rappresentato dentro i Centri di Servizio e il Forum Terzo Settore è di accompagnare le associazioni più giovani nel proprio percorso. Questa è la speranza per il futuro: che riusciamo a ritessere e a far ripartire gli stessi processi che ci hanno permesso di crescere come associazioni organizzate in passato. Le istituzioni fanno fatica a capire quante esperienze straordinarie ci siano nel nostro Paese, ma fa fatica anche il Terzo Settore: abbiamo bisogno di rimettere insieme i pezzi, non si può fare a meno del Terzo settore, né delle istituzioni. Ora, dal 2 al 4 Giugno, si terrà l’assemblea Movi a Frascati, a partire da alcuni elementi generativi che in questo momento è importante riconoscere: La gratuità – che non vuol dire che i soldi siano sbagliati, ma che pensare di usare il volontariato per raccogliere più fondi è un problema, non del volontariato stesso, ma del terzo settore che usa il volontariato -; il radicamento sul territorio – perché il paradosso è che il Forum è un organismo rappresentativo solo delle grandi reti, mentre i Centri di Servizio sono dentro i territori, ma non hanno rappresentatività e l’unico modo per superare il problema è far ripartire le reti sui territori -; la dimensione politica del volontariato, che deve lavorare per scomparire, affrontare i problemi per superarli; la dimensione formativa sulla rappresentanza, che richiama l’importanza di un percorso condiviso e partecipato che permetta di portare avanti le istanze, mantenendo partecipati i percorsi e evitando di scimmiottare la politica ».

Diventa sempre più importante la misurazione d’impatto del volontariato formalizzato. Come valorizzare, in questo senso, il volontariato informale?

«L’errore più diffuso riguarda le istituzioni, che hanno bisogno di contabilizzare i servizi: continuare a prendere i parametri che riguardano solo i servizi vuol dire perdere tutto quanto è informale. Occorre, invece, cambiare gli indicatori, accettare parametri che comincino a misurare la comunità, la rete. E non è difficile farlo, pensiamo alla pandemia: sappiamo come ha funzionato il sostegno dove le reti c’erano e come, invece, le persone siano rimaste abbandonate a se stesse dove le reti non c’erano. È un problema culturale: continuiamo – e parte delle istituzioni continua – a vedere il volontariato come una pezza per le mancanze, laddove il volontariato ha il compito di porre le questioni, che poi le istituzioni devono risolvere; di chiedersi come non essere necessario, non coprendo il servizio che le istituzioni non assicurano, ma lavorando perché questo sia acquisito come diritto. Dobbiamo cambiare le variabili da misurare e ora abbiamo le capacità per farlo, ci sono esperienze che sono già andate avanti su questo piano. Come si misura una comunità, un lavoro di rete? Gli elementi ce li abbiamo».

Con Enrico Serpieri, che ha introdotto il primo world cafè sulla collaborazione tra istituzioni ed ETS, abbiamo fatto un passaggio sui patti di collaborazione. Lei cosa ne pensa?

«I patti di collaborazione servono soprattutto alle istituzioni per parlarsi, tutto quanto è nato negli ultimi anni ha questa funzione principale, altrimenti sociale, sanitario, scuole non parlerebbero. Tuttavia un dirigente scolastico, un dirigente Asl, un dirigente comunale intelligenti questi patti li facevano già prima perché sapevano essere necessari alla firma di un protocollo per la collaborazione tra istituzioni. Se i patti sono occasione per il volontariato di sedere al tavolo con le istituzioni bene, ma sono più di 200 le città italiane che hanno già approvato il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni, con la stessa funzione: dare alle istituzioni uno strumento per operare. E c’è la città di Trieste che da 100 anni fa i patti di collaborazione con i cittadini. Allora, se i patti sono uno strumento utile, usiamoli, ma non dimentichiamo che, se i dirigenti dello Stato seguissero il principio di sussidiarietà e l’articolo 118 della Costituzione, potrebbero fare un patto di collaborazione in qualunque momento, anche con i singoli cittadini. Un’azione proattiva che dovrebbe essere il lavoro delle istituzioni, piuttosto che la gestione dei servizi, perché, attivando i cittadini, i problemi si risolvono in mille modi. Mentre in Italia va per la maggiore l’idea ottocentesca che a qualcuno sia delegato il funzionamento dello Stato, che vuol dire abbandonare a se stesse tutte le esperienze generative sul territorio. Perché sul territorio i cittadini vanno avanti, mentre abbiamo troppi politici, dirigenti, funzionari che continuano ad operare come se fossero ancora nell’800. Come dice spesso Gregorio Arena: “Abbiamo un’alternativa tra il seguire il modello ottocentesco o provare ad affacciarci al mondo nuovo”. I patti, allora, siano la strategia, non l’obiettivo. L’obiettivo è applicare la Costituzione. Il tema è l’amministrazione condivisa, ma siamo in un passaggio importante in Italia: i funzionari devono imparare a collaborare con i cittadini e i cittadini sono abituati a delegare. Noi stessi, il Terzo settore, siamo dipendenti dai bandi; abbiamo delegato le politiche della povertà educativa alle fondazioni, soggetti privati, invece di deciderle insieme; non pensiamo di essere abili a fare le politiche; non siamo formati all’amministrazione condivisa. Perché sulle politiche non possono esserci conflitti di interesse, le politiche dobbiamo farle da cittadini, per poi affidare i servizi a professionisti che se ne occupino. Restituendo un po’ di potere ai cittadini magari i funzionari si sentirebbero aiutati, avrebbero più coraggio. Il tempo della delega è finito, l’amministrazione condivisa è la soluzione per il paese, ma implica il passaggio dall’individualismo al bene comune e che il volontariato sia l’anima di questo passaggio».

GIANLUCA CANTISANI. IL VOLONTARIATO CHE CAMBIA E ANTICIPA

GIANLUCA CANTISANI. IL VOLONTARIATO CHE CAMBIA E ANTICIPA