PERCHÈ ABBIAMO BISOGNO DEL GIORNALISMO DI PACE

Un libro del Gruppo Abele riapre il dibattito sull'informazione che riguarda i conflitti: le guerre nel mondo, ma anche quelli di casa nostra

Abbiamo bisogno di un giornalismo di pace. Ci stiamo assuefacendo ad un’informazione che fa la guerra anche laddove non c’è, alimentando i conflitti – le guerre vere e i conflitti di casa nostra –  anche là dove non ci sono. O ci sono, ma potrebbero essere gestiti pacificamente. E questo vale per l’informazione (come dimenticare il titolo “Bastardi Islamici” con cui il quotidiano “Libero” apriva la prima pagina il 14 novembre 2015?) e vale per la comunicazione che i cittadini amano produrre e condividere sui social, spesso intrisa di violenza, propaganda ed hate speech molto più di quanto lo sia l’informazione tradizionale.

giornalismo di pace
Un titolo da “giornalismo di guerra”

La comunicazione, e al’interno di essa l’informazione, hanno una grande influenza sulla prevenzione dei conflitti e sul loro evolversi una volta che sono scoppiati. Possono alimentarli, rendendo il clima più infuocato e conflittuale, o possono contribuire a superarli, creando un clima che aiuti a ridurre la violenza e offrendo ai cittadini e a chi li governa gli elementi su cui fondare mediazioni e dialogo. È su questa constatazione che si basa l’idea del giornalismo di pace, nata nel 1965 grazie allo studioso norvegese Johan Galtung e alla politologa Mari Holmboe Ruge, che avevano studiato il modo in cui venivano lavorate e riportate dalla stampa le notizie sui Paesi esteri.

Che cosa è il giornalismo di pace

Nei decenni successivi la riflessione sul giornalismo di pace è stata approfondita e arricchita di contributi (da citare almeno il testo di Jake Lynch e Annabel McGoldrick, Peace Journalism, uscito nel 2005 e il sito Trascend International). Ora finalmente le Edizioni Gruppo Abele hanno pubblicato un testo in italiano, che raccoglie una serie di contributi che danno un’idea articolata del tema: si intitola Giornalismo di pace, ed è stato curato  Silvia De Michelis e da Nanni Salio,  del Centro Sereno Regis di Torino, purtroppo morto prima della pubblicazione. 

Johan Galtung, fondatore degli studi sulla pace
Johan Galtung, fondatore degli studi sulla pace

Secondo Galtung, esistono due modi per raccontare i conflitti: la via inferiore e la via superiore. «La via inferiore, quella del giornalismo della violenza, racconta un conflitto come una battaglia e la battaglia come un’arena sportiva. Le parti sono combattenti che cercano di imporre il proprio obiettivo, come in un gigantesco tiro alla fune dove ognuno sta all’estremità della corda. Lo schema discorsivo di riferimento è quello del bollettino militare: chi guadagna terreno, chi lo abbandona; contare le perdite in termini di morti, feriti, danni materiali. La prospettiva del gioco a somma zero rimanda al giornalismo sportivo, dove “vincere non è tutto, è l’unica cosa».
All’opposto, la via superiore, quella appunto del giornalismo di pace, «sposta l’attenzione sul conflitto e sulle sue trasformazioni. C’è ovviamente la minaccia concreta della violenza; ma alla base c’è un conflitto irrisolto, che potrebbe portare a una fila di rappresaglie. I conflitti… sono affrontati come sfide in cerca di creatività».

Un racconto complicato

I conflitti, normalmente, hanno più di due protagonisti, e questo è uno dei motivi per cui sono complicati da raccontare. Altri motivi sono che spesso le cause – immediate e storiche – sono complesse e che si svolgono dentro contesti che hanno una forte influenza sul loro svolgimento.
Chi sceglie di fare informazione seguendo la via bassa, sceglie di costruire una narrazione semplificata del conflitto, si basa sulle fonti istituzionali, si concentra sulle vittorie e le sconfitte, è più soggetto alla propaganda dei Governi e dei soggetti forti.

Chi sceglie la via alta si complica non poco il lavoro: cerca di individuare tutti gli interessi in campo e di risalire alla genesi del conflitto, si basa anche su fonti non ufficiali e dà voce alle vittime, ai poveri, ai gruppi sociali, indaga gli interessi economici, ma anche le posizioni culturali che stanno dietro ai conflitti e alle cause strutturali. E proprio perché cerca di dare voce a tutte le parti in causa, si ribella alla propaganda, che gioca un ruolo fondamentale nel motivare, gestire e spesso prolungare i conflitti, anche attraverso la censura. Un esempio eclatante lo ricorda nel testo Stuart Allan, che, a proposito della guerra in Iraq scrive: «Dopo cinque anni di guerra e più di 40mila soldati statunitensi uccisi, le inchieste e le interviste condotte hanno prodotto meno di sei immagini di soldati americani morti».
In fondo, il giornalismo di pace è un giornalismo di inchiesta e di approfondimento, che quando racconta la violenza lo fa non per esaltare la forza dei vincitori, ma, scrivono Galtung e Lynch, «si sofferma sulle vittime e sulla loro sofferenza, che sia causata dalle azioni di una sola persona malvagia o che sia prodotto di struttura, cultura e contesto».

La pace è creativa

Ma, soprattutto, non racconta solo la violenza e le battaglie: racconta anche i tentativi di mediazione, le azioni non violente volte a creare dialogo e riconciliazione. Perché considera i conflitti che come situazioni che possono essere affrontati con creatività,  cercando soluzioni che non producano vincitori e vinti ma rendano compatibili tra loro gli obiettivi che le diverse parti in causa si pongono: «Il giornalismo di pace si pone l’obiettivo di trovare soluzioni e idee per un esito del conflitto diverso dall’imposizione di una parte sull’altra, valutando soprattutto proposte nuove e creative e chiedendosi se tali idee siano efficaci abbastanza da prevenire la violenza».

giornalismo di pace
Il giornalismo di pace cerca soluzioni creative per i conflitti

Qualcuno sostiene che, in fondo, il giornalismo di pace cerca solo di fare buon giornalismo, secondo le regole di completezza e accuratezza, che dovrebbero caratterizzare questo mestiere, in un mondo in cui lo scoppio della violenza è sempre dietro l’angolo: «Duemila nazioni che chiedono indipendenza in un mondo con solo duecento paesi e appena una ventina di stati nazionali costituiscono certamente un rischio di violenza. Ma nel conflitto è insita anche una grande opportunità di progresso per l’essere umano, una spinta a cercare nuove strade, a sfruttare l’immaginazione e la creatività, a trasformare il conflitto, meglio se senza violenza, in modo che le opportunità abbiano la meglio sui rischi».

Il problema dell’hate speech

La riflessione sul giornalismo di pace incrocia e arricchisce quella sull’informazione responsabile non solo in caso di guerre, ma anche per tutti quei conflitti che attraversano società complesse come la nostra. Il caso degli immigrati, o della presenza di cittadini di fede islamica nel nostro Paese, sono solo solo quelli più eclatanti.
Un’informazione che si trasforma in hate speech o si fa essere complice dell’hate speech dei politici o dei governi, che creano nemici a proprio uso e consumo – ad esempio bollando come “terroristi” tutti i movimenti di dissenso o resistenza – si assume responsabilità gravissime. Purtroppo, questo succede ancora troppo spesso, tanto da essere una sfida per la società civile, il volontariato e il Terzo settore in particolare.

 

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giornalismo di paceNanni Salio, Silvia De Michelis (ed.)
Giornalismo di pace
Edizioni Gruppo Abele, 2016
pp. 50, € 16.00

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