I FILANTROCAPITALISTI: SOLIDARIETÀ, MA A CHE PREZZO?

Imprenditori ricchissimi sono impegnati nel campo della salute e della povertà. Senza ridurre le diseguaglianze e imponendo il modello capitalistico

L’1% della popolazione mondiale possiede ormai la metà della ricchezza del pianeta. Si tratta di una minoranza che avrebbe molto da perdere oggi se ci fosse un’evoluzione sociale e una virata normativa verso il ridimensionamento delle diseguaglianze e la redistribuzione della ricchezza. Per questo motivo questa élite ha deciso di prendere in mano e condurre questo processo di trasformazione, ma a modo suo. Avocando a sé il tema della lotta alla povertà, provando a donare un po’ della ricchezza che continua ad accumulare, e continuando, di fatto, a produrre diseguaglianze. Nicoletta Dentico, nel libro “Ricchi e buoni?” (ed. EMI Editrice Missionaria Italiana, 2020) ci racconta motivazioni e conseguenze delle azioni dei “filantrocapitalisti”, benefattori come Bill Gates e altri imprenditori ricchissimi del pianeta che, con le loro fondazioni, finanziano grandi progetti di nei campi della salute, dell’agricoltura, della povertà nei Paesi in via di sviluppo.

Oltre a prendersi tutto, si sono presi anche il mondo della solidarietà. E lo gestiscono a modo loro. Ovviamente senza che si metta mai in discussione l’attuale sistema capitalistico, di fatto sostituendosi alla politica, e prospettando spesso soluzioni non a lungo termine. E finiscono per guadagnare in benefici fiscali e, soprattutto, in un’ottima reputazione. Ne abbiamo parlato con Nicoletta Dentico.

 

diseguaglianze
La copertina del libro di Nicoletta Dentico

Questo libro trae ispirazione da sentimenti di dolore e di rabbia. Quali sono?
«È il trigger che ha dato origine a questo lavoro di ricerca. I nuovi filantropi sono entrati con i valori di mercato e i principi di mercato in un territorio che sembrava ancora salvo, quello della solidarietà, del lavoro che si fa per essere vicini alle persone che soffrono e cercare di creare un mondo più giusto. È un territorio strategico nel momento in cui il mondo definisce gli obiettivi del millennio e dello sviluppo sostenibile, perché è lì che passano tutti i flussi di intelligence, di definizione delle strategie politiche e di monitoraggio di quello che i governi possono fare, e come possono farlo. Con la scusa dello sviluppo dei popoli si sono impadroniti di territori, che prima era molto più incardinati in valori di solidarietà e partecipazione. E oggi invece è diventato un modello top-down, in cui chi ha i soldi, ha le conoscenze e i contatti con il mondo della politica e dell’impresa, è colui che detta legge.  Lo sviluppo è quello che dicono loro, l’autodeterminazione dei popoli te la scordi. Come scrive Vandana Shiva nella prefazione, è una forma di neocolonializzazione, a fronte di una politica che, al contrario del periodo di fine Ottocento e inizio Novecento quando in America c’è stata la prima ondata filantropica, oggi è meno consapevole di quello che sta succedendo e ha molto meno senso di sé, del suo ruolo in uno stato democratico».

È come se la politica si fosse levata un problema da risolvere, come se dicesse: tanto ci pensano loro…
«In tutto questo c’è uno straordinario lavoro, quello della depoliticizzazione dei problemi del mondo. Sono loro i vincitori della globalizzazione. Sono i salvati, e si vogliono occupare dei sommersi. Ma le domande sul perché siano sommersi non se le fanno. Danno un grande assist alla politica, perché ci mettono i soldi e prendono le decisioni senza processi democratici: i soldi sono i loro e fanno quello che vogliono. Con le loro fondazioni, con i loro consigli d’amministrazione, hanno un’agilità di movimento molto diversa dai percorsi democratici. È un vantaggio competitivo enorme. I governi fanno affidamento sulla loro agilità, sui soldi che ci mettono, sulla loro capacità di connettersi. Ma l’effetto tremendo è quello di depoliticizzare ogni ragionamento sulle cause che portano ad essa. L’idea è di trovare soluzioni tecniche a problemi che sono politici».

 

Nicoletta Dentico

Per definire queste persone si usa il termine «filantrocapitalismo», coniato per la prima volta nel 2006 dall’Economist. Cosa c’è dentro questo termine?
«È un termine tecnico, che identifica un certo tipo di filantropia. Non ce l’ho con la filantropia tout court: la filantropia ha molte manifestazioni Qui mi occupo del “filantrocapitalismo”, quella forma molto strategica di filantropia del XXI secolo, che permette di trasformare il potere dei soldi in egemonia gpolitica e permette ai grandi imprenditori di rafforzare la propria egemonia attraverso un’agenda del bene, che non è altro che un’estensione di quella imprenditoriale sotto nuove vesti. E il confine tra profit e non profit non c’è più. C’è una forte defiscalizzazione da una parte, un investimento dell’immagine dall’altra, e un accesso alle stanze del potere che, se fai solo l’imprenditore, non ottieni. Ed è un accesso a livello globale».

Questi filantropi si spendono per costruirsi un’immagine di campioni della lotta alla povertà: il fine è soprattutto questo?
«È un’enorme operazione di marketing. Se pensiamo che Bill Gates, in meno di dieci anni, è comparso tre volte ad aprire l’assemblea generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, capiamo come la loro sia diventata quasi una religione: diventano quasi dei “sacerdoti del bene”. Diventano un benchmark di qualità di un mondo al quale, se tu non accedi, non ti viene più riconosciuta alcuna sorta di legittimità».

Nel libro scrive che Bill Gates si è imposto come il pifferaio magico della salute globale, «il più potente dottore del pianeta». Come mai ha scelto il campo della sanità?
«Tutti partono dalla sanità, successe anche con la fondazione Rockfeller, quando mise in campo le prime iniziative alla fine dell’Ottocento. La sanità è un territorio di grandissima sperimentazione. Primo perché è un bisogno riconoscibile da tutti: stai lavorando sulla vita delle persone e quindi è un terreno molto legittimante dal punto di vista morale. Ma, soprattutto, perché la sanità è un mondo di bisogni comunque: siamo la società più tecnologica, più avanzata, più ricca che il mondo abbia mai conosciuto, ma i problemi sanitari sono enormi e devastanti. La globalizzazione ha lasciato un deserto da punto di vista sanitario. Oggi viviamo il Covid, ma siamo solo all’inizio di una fase nuova pandemica che sta preparando altre sorprese. La globalizzazione ha devastato il pianeta, e questo significa che, nella sanità – vuoi per le malattie infettive, per i tumori, per le malattie non trasmissibili come l’obesità –  è stata identificata una grande prateria dove c’erano molte possibilità di aggancio, molti pretesti di intervento, un’area sottofinanziata rispetto alla domanda. E non dimentichiamoci che, a livello politico, la salute non è mai stata la priorità in agenda. Così i nuovi filantropi hanno sfruttato questa debolezza, attraverso una serie di partenariati tra pubblico e privato, una formula oggi imprescindibile: tra gli obiettivi dello sviluppo sostenibile oggi non puoi fare niente se non hai i privati dentro qualunque progetto. Si è passati dal multilateralismo – i governi che lavoravano insieme – al multistakeholderismo, in cui siamo tutti stakeholder. Peccato che intorno alla salute ci siano interessi diversi e divergenti, e anche qualche conflitto di interessi. Se intorno al tavolo ci sono anche quelli che fanno i farmaci, a questi della prevenzione non interessa, così come delle cause sociali che determinano le condizioni di salute. Questo potere economico e sociale è diventato potere politico. E dalla salute passi al cibo, all’agricoltura, all’educazione e poi passi a decidere le possibilità di finanziamento dei Paesi, insegni loro come ottenere i finanziamenti, come strutturare modelli assicurativi per la salute».

 

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Vandana Shiva ha scritto la prefazione al libro

Nello scenario del Covid-19 Bill Gates è il vincitore indiscusso. Nel 2015 aveva intuito che un virus sarebbe arrivato. Come è andata?
Ha organizzato a Seattle – era appena finito l’Ebola, che per la prima volta da virus che si autoesauriva era diventato un rischio pandemico, che era arrivato negli Stati Uniti e in Europa – un incontro tra i massimi esperti nella costruzione di scenari sanitari del futuro. Ed era venuta fuori l’ipotesi di un patogeno molto virulento che attacca le vie espiratorie. Non era questione di se, ma di quando. C’erano indicazioni che il mondo stava costruendo questa situazione. È il vincitore indiscusso di questa situazione perché si è fatto trovare pronto e ha reimpostato tutte le linee di investimento della sua fondazione, cominciando a lavorare meno sulle grandi aziende farmaceutiche e molto di più nelle startup famaceutiche, le nuove biotech, le più innovative, che oggi sono protagoniste delle ricerche sul vaccino».

Un altro big della tecnologia è Mark Zuckerberg. Qual è il suo impegno nella filantropia?
«Parlo di lui, e di Jeff Bezoz, nel capitolo sul Giving Pledge, quel “Paperoni di tutto il mondo unitevi”, in cui Bill Gates e Melinda hanno deciso di chiamare a raccolta tutti i miliardari americani, per convincerli a dare di più. Mark Zuckerberg, da quando è nata la figlia, ha lanciato una fondazione attiva nel campo dell’educazione, soprattutto in America: l’intento è portare la digitalizzazione nei sobborghi marginalizzati negli Stati Uniti. Anche in questo caso ci sono delle ambiguità: quando si parla di scuola non può esserci un unico sistema che deve valere per tutti, la scuola è legata alle comunità, a dei valori, non soltanto ad un approccio commerciale, mercantilistico».

I filantropi, le grandi multinazionali, agiscono purché non si metta mai in discussione il sistema capitalistico e in questo modo continuano ad accrescere le disuguaglianze…
«Accrescono le diseguaglianze e accrescono anche le loro tasche…  Nonostante diano un sacco di soldi continuano a diventare sempre più ricchi, e qualche domande ce la dobbiamo fare. Questa cosa è stata originata in risposta a una società civile, a una spinta dal basso che chiedeva una globalizzazione dei diritti, quella che si è rivelata a Seattle, si è sviluppata tra il 1999 e il 2001, quando, a Genova, è stata soffocata. Loro hanno cominciato a trovare un sistema per arginare e convogliare questa spinta dal basso che chiedeva una globalizzazione dei diritti, hanno fermato questa aspirazione a uno sviluppo umano di altra natura, forse non anticapitalistico, ma socialdemocratico, dove c’è l’economia ma c’è uno Stato che controlla. Oggi sono vincitori in una partita in cui non ci sono regole. In questo senso vogliono mantenere e preservare il modello capitalistico. La seconda cosa è che sono uno dei sintomi più eclatanti della diseguaglianza che la globalizzazione ha ormai ratificato: non solo in termini economici, anche generazionali, geografici. La diseguaglianza è un tratto che definisce il nostro tempo: è il liquido amniotico del capitalismo è la diseguaglianza. Il terzo fattore è che sono propulsori un’agenda di privatizzazione della vita delle persone, della stessa agenda dello sviluppo, sono paladini dell’idea che solo i mercati risolvono i problemi. E quando si parla di mercato sono loro, sono le multinazionali, ad essere titolati».

Vandana Shiva scrive che le potenze coloniali se ne sono andate, ma hanno lasciato intatti i meccanismi dello sfruttamento. Casomai, li hanno rinnovati e perfezionati…
«Vandana Shiva, nella sua prefazione, essendo una donna indiana, lo spiega molto bene. È una colonizzazione che prima passava attraverso le materie prime, che oggi ci sono ancora, ma è una fase nuova, quella del controllo delle vite. Io credo sia una forma di colonialismo. Così come credo che questi ricchi del mondo di oggi siano le icone di un mondo postfeudale. È un feudalesimo globalizzato: un tempo c’erano i Signori, i Lord, i principi, oggi ci sono questi personaggi iconici che, al contrario delle élite medioevali, che erano ricchissime ma delimitate geograficamente, sono padroni globali. Si muovono in uno spazio globale, molti più potenti dei signori dei feudi. Siamo in un tempo postfeudale e pericolosissimo, perché il mondo non ha mai visto una tale accumulazione di poter finanziario come oggi».

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