CRISI CLIMATICA: L’IMPATTO ZERO NON HA ETÀ

Le associazioni condividano le competenze. E i giovani si ricordino di chi li ha preceduti. Intervista a Stefano Ciafani

Intervista tratta da VDossier (n. 1/settembre 2019), dedicato al volontariato per l’ambiente e al dibattito sul clima.

La questione climatica, e della sostenibilità in generale, è oggigiorno un tema trasversale a tutti i settori (sociale, economico e ambientale) e i cui effetti impattano sugli equilibri mondiali. Il tema del riscaldamento globale e delle sue conseguenze non riguarda più solo le associazioni ambientaliste, ma tutte le organizzazioni. Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente, associazione che in Italia rappresenta una mobilitazione per l’ambiente diffusa e capillare (18 sedi regionali, mille gruppi locali, 115 mila tra soci e sostenitori), lancia al Terzo settore italiano alcune sfide concrete, per superare l’impasse dell’ambientalismo ideologico e aprire orizzonti più sostenibili.

Presidente, quali misure concrete potrebbero essere messe in atto per rilanciare l’ambiente in Italia? In quali di queste misure associazioni e volontari possono avere
un ruolo? E come?
«Mi vengono in mente due sfide. La prima è attuare una mobilitazione concreta e con Greta, perché grazie anche al contributo dato dal movimento Fridays for Future e al lavoro che Greta Thunberg ha realizzato a partire dalla scorsa estate, è stata resa immediatamente evidente a livello planetario la necessità di intervenire subito con azioni molto forti per risolvere il problema di quella che è considerata una crisi climatica, e non più un cambiamento climatico. Ciò è avvenuto con un messaggio chiaro e potente: per la prima volta i ragazzi ci dicono “noi non abbiamo il tempo per diventare grandi ed entrare nelle stanze dei bottoni, nelle aule del Parlamento, nei palazzi di Governo, nei CdA di imprese pubbliche o private; dovete farlo voi subito, perché fra vent’anni potrebbe essere tardi”. È diventata planetaria la consapevolezza dei cambiamenti cimatici e che la gestione della  crisi climatica non può essere lasciata ai soli ambientalisti.

 

Il presidente di Legambiente, Stefano Ciafani

Nel 1990 Legambiente, anticipando la prima Conferenza Mondiale dell’ONU su Ambiente e Sviluppo di Rio De Janeiro, diffuse una petizione attraverso i suoi circoli territoriali per chiedere al Governo di fermare i cambiamenti climatici. La petizione fu sottoscritta da 600mila persone. Allora ci poteva stare, che di questo tema se ne occupassero solo gli ambientalisti; oggi non più. Sono passati quasi 30 anni da quell’epoca, è cambiato il mondo: non sono più gli Stati Uniti a essere i maggiori emettitori di gas serra in atmosfera, ora ci sono la Cina e i Paesi dall’economia emergente. È fondamentale che l’allarme sia lanciato da tutti e le azioni di contrasto alla crisi climatica siano praticate da tutti. Anche il Terzo settore in generale, non solo quello a vocazione ambientale, deve adoperarsi secondo le proprie possibilità e capacità, per fare in modo che ciò si faccia in tempi brevi.
Il mondo cattolico è molto orientato verso questi temi. Una delle cose più straordinarie avvenute a livello mondiale è il messaggio culturale lanciato nel 2015 da Papa Francesco con l’enciclica “Laudato si’” verso la COP21 di Parigi (XXI Conferenza delle Parti), che nel dicembre dello stesso anno ha visto la firma dell’accordo mondiale per la lotta ai cambiamenti climatici. Le associazioni laiche, quelle cattoliche e le comunità di altre religioni sono impegnate oggi su questo tema a vario titolo ed è fondamentale che tutto il Terzo settore lavori insieme per pretendere dal governo nazionale, dai governi regionali, dalle imprese private e dalle società pubbliche azioni concrete da mettere in campo immediatamente. Fortunatamente occuparsi di cambiamenti climatici in Italia non è più un’attività di nicchia.

La seconda sfida riguarda una specificità molto italiana, quella di un Paese sempre più incattivito e arrabbiato, che sta sdoganando gli istinti peggiori in termini di violenza, intolleranza, razzismo, alimentati da una narrazione istituzionale che fa emergere problemi apparenti (per esempio, l’emergenza legata agli sbarchi di migranti), e non dà considerazione ai problemi reali, che finiscono per non essere più percepiti. Alcuni esempi: in Nord Italia abitano 20 milioni di persone che respirano aria malsana; nelle città italiane ci sono più di 30 milioni di tonnellate di amianto nascoste negli edifici; milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi sono smaltiti illegalmente in giro per il Paese. Questi problemi, nonostante abbiano un impatto diretto sulla salute delle persone, non sono più considerati; si guarda la realtà attraverso lenti che distorcono e ingigantiscono false minacce.
Ciò paga molto dal punto di vista elettorale, però fa perdere di vista gli obiettivi di miglioramento che il Paese si deve necessariamente porre. Occorre ricordare che questo è il Paese che nel 1976 è andato in Friuli ad aiutare le persone terremotate; che nel 1980 si è organizzato, anche se non esisteva ancora il sistema di Protezione Civile, per aiutare la popolazione dell’Irpinia; che nel 1998 è andato a spalare il fango a Sarno e Quindici, così come è intervenuto negli ultimi terremoti de L’Aquila e del Centro Italia.

 

fridays for future
Roma, 2019, un Friday for future

Le persone che vivono in Italia hanno sempre dimostrato una grandissima capacità di intervenire per aiutare gli altri; si tratta di quella parte sana di Paese, che non ha perso la sua capacità di promuovere solidarietà. C’è ancora questo Paese, che però non si racconta. Si raccontano solo omicidi, azioni e raid razzisti, battaglie dei penultimi contro gli ultimi. Il Terzo settore è una rappresentazione plastica dell’Italia sana, che, in maniera silenziosa, continua a promuovere quelle azioni di solidarietà che stanno nel nostro Dna, di chi è nato e cresciuto in questo Paese, o anche di chi non ci è nato ma ci è cresciuto, perché fortunatamente nel frattempo le persone in Italia si sono diversificate. Quest’altra mobilitazione fondamentale non è quella dei buonisti contro i razzisti, ma la mobilitazione del buon senso e della capacità di tirar fuori l’umanità per inoculare nel corpo del Paese gli antidoti necessari a debellare i virus della violenza, dell’intolleranza, della discriminazione che purtroppo continuano a essere diffusi quotidianamente attraverso i media.
Il Terzo settore già si è attivato contro la deriva di intolleranza e violenza del Paese, ma deve mettere insieme tutti i suoi soggetti, affinché quest’emergenza, insieme alla crisi climatica, venga al più presto affrontata, arginata e controllata, sapendo che a entrambe l’Italia può dare un contributo comunque concreto, a prescindere da cosa succede nel
resto del mondo».

Molte organizzazioni del Terzo settore operanti in diversi ambiti (sanitario, sociale, culturale etc.) si stanno attivando nel contrasto a forme di violenza e razzismo. Queste associazioni, che non provengono da esperienze di tipo ambientalista e non hanno un approccio scientifico all’ambiente, quale ruolo potrebbero avere nel contrasto alla crisi climatica?
«Innanzitutto bisogna evitare di incorrere nell’errore di ritenere, che chi c’è stato finora non si è occupato dei problemi climatici. È certamente fondamentale che si attivino i giovani di oggi, senza però dimenticare che c’è chi lavora alle questioni ambientali da 40 anni. Se oggi c’è un terreno fertile, per sviluppare tecnologie rinnovabili, muoversi a emissioni zero, vivere in edifici a basso o nullo impatto ambientale, attuare modalità sostenibili per produrre a livello industriale, e se i giovani di oggi, oltre a essere nativi digitali, sono nativi rinnovabili, è frutto del lavoro di chi negli ultimi decenni si è occupato di ambiente.
Quando ero piccolo io, l’unico modo per vedere una pala eolica era andare in Nord Europa o guardare un libro di scienza; oggi i bambini e i ragazzi si guardano intorno e sono pieni di tecnologia rinnovabile.
È pertanto fondamentale che non si inneschi una spaccatura fra generazioni, ma fra queste ci sia integrazione concreta. Così come fra le organizzazioni ambientaliste e le altre associazioni, l’interazione, integrazione e collaborazione sono fondamentali; per occuparsi insieme di “ecologia umana” è necessario poter condividere le competenze che ciascuno ha sviluppato al meglio. Si tratta per tutti di guardare al di fuori del proprio orto, oltre la
condizione di associazione di un certo tipo o attiva in un determinato ambito, e considerare le questioni in cui si è impegnati in una visione più ampia, con particolare attenzione a come si collegano fra loro e mettendo in comune le diverse sensibilità.
Le associazioni che si occupano di cambiamento climatico possono dare un contributo fattivo a tutte le altre su come mettere in campo pratiche concrete di sostenibilità ambientale, che valgono per i volontari, per le sedi delle associazioni, per le modalità
di acquisto delle forniture degli uffici, etc. In poche parole per sviluppare e attuare insieme un lavoro culturale volto a promuovere stili di vita più sostenibili, per esempio, di soci e volontari. Si tratta di conoscenze e pratiche che al giorno d’oggi sono disponibili e accessibili dal punto di vista culturale, tecnologico e gestionale. Chiedere a chi di questi
temi ne mastica da un po’ aiuta a superare quell’attrito di primo distacco nel ripensare i propri stili di vita. E aiuta a non perdere tempo».

Recentemente Legambiente ha ripensato l’organizzazione strutturale di alcuni dei suoi settori storici, scegliendo di mettere insieme l’Ufficio Campagne e l’Ufficio del Volontariato: una sfida che sembra complessa e molto interessante. Che volontariato vede oggi Legambiente?
«Quello che abbiamo fatto negli ultimi anni è un lavoro di integrazione dell’attività tradizionale dei campi di volontariato estivi con le attività di volontariato promosse durante le giornate nazionali del volontariato associativo. Ovvero collegare le attività che
vedono impegnati i volontari che prestano la loro opera in occasione dei campi di volontariato, a quelle di chi “pulisce il mondo” a fine settembre (Puliamo il mondo), di chi pulisce le spiagge a fine maggio (Clean-up the Med e Spiagge e fondali puliti) o pianta alberi il 21 novembre (Festa dell’albero) o pulisce le scuole a marzo (Nontiscordardimé).
Un lavoro per promuovere il volontariato più in generale, che sta superando gli steccati del passato; per noi sono volontari i bambini delle scuole, che organizzano iniziative insieme ai nostri circoli locali, sono volontari i cittadini e le famiglie che vengono ad aiutare per le giornate di pulizia, sono volontari i dipendenti di imprese che aderiscono a progetti di volontariato aziendale attraverso giornate di manutenzione ambientale. Il volontariato è importante che unisca, sia all’interno della stessa associazione che fra associazioni diverse.

 

crisi climatica
La campagna condivisa da 35 associazioni

Un esempio concreto: dall’anno scorso Legambiente promuove, in contemporanea alla storica campagna Puliamo il Mondo (che nel 2018 ha visto la partecipazione in Italia di 600 mila volontari), la campagna Puliamo il Mondo dai pregiudizi, con la collaborazione di altre 35 associazioni laiche e religiose (cattoliche e non), che combattono contro qualsiasi tipo di discriminazione e a favore dei diritti. L’associazionismo più ampio riunito a livello nazionale, insieme agli ospiti dei centri di prima accoglienza, alle comunità straniere già presenti nel Paese, alle famiglie arcobaleno, e a chiunque voglia prestare la propria opera per restituire bellezza ai territori in cui vive, a prescindere dal passaporto, dall’orientamento sessuale e dalla religione che professa. Si è cittadini di un luogo, se quel luogo lo si cura e lo si ama. È stato un fiume di volontari, provenienti da esperienze diverse, riuniti per affrontare un’emergenza e che si sono prestati a organizzare iniziative in Italia per abbattere muri. In un periodo storico in cui si alzano muri e si chiudono porti, l’obiettivo è stato, e ancora è, quello di abbattere le barriere sociali e culturali che vanno tanto di moda.
Il volontariato così può e deve superare i propri steccati, deve mettere a disposizione le sue conoscenze, deve aprire le porte tra associazioni di volontariato. Mai come in periodi così difficili come questo è importante mettere in atto un’azione di risanamento, un percorso di rinascita sociale, culturale e ambientale».

Non capita tutti i giorni di intervistare un presidente “Rock & Roll”; alla luce delle sfide che ha lanciato al Terzo settore, ci suggerisce tre canzoni che ci possono ispirare?
«La prima è Pride (In the Name of Love) degli U2 (The Unforgettable Fire, 1984). È una canzone molto significativa perché racconta in maniera efficace di come si può combattere l’odio con l’amore, quello che faceva in maniera non violenta Martin Luther King, alla cui uccisione nel 1968 si riferisce il testo, e come lui tanti rappresentanti della lotta non violenta contrapposta alla violenza. Una canzone che racconta molto bene l’orgoglio di chi combatte per i propri ideali, per il bene della propria comunità e della collettività in generale, contro chi alimenta paure per il proprio tornaconto personale.
La seconda, per un motivo diverso, è Comfortably Numb dei Pink Floyd (The Wall,1979), in particolare per l’assolo di chitarra finale, che dal vivo David Gilmour arriva a far durare oltre i 4 minuti; un assolo infinito che non stanca mai. Per fronteggiare le emergenze che abbiamo in Italia il volontariato dovrebbe avere la capacità di suonare un assolo (non da soli ma insieme) così lungo, profondo e mai stanchevole fino a che i problemi non siano risolti. La profondità e la perseveranza nel lavoro delle associazioni è fonda mentale.
La terza canzone è Bohemian Rhapsody dei Queen (A Night at the Opera, 1975); vale la pena citarla perché nella stessa canzone i Queen hanno messo diversi generi musicali che si rincorrono, e questo ci può essere di esempio per le sfide che ci siamo proposti. Il percorso per cambiare il Paese può anche essere tortuoso; l’associazionismo deve avere la capacità di modificare il proprio operato, il proprio stile; deve avere la capacità non di mimetizzarsi, ma di cambiare le proprie iniziative, le proprie modalità di mobilitazione, sapendosi adattare al Paese che cambia. Diversamente si rischia di rimanere indietro e non capire che, in un Paese che cambia, anche tu devi cambiare e provare a influenzare il cambiamento. Bohemian Rhapsody, con quei cambi di genere repentini, ma molto armonici, può allora essere un modello interessante da propor re per le modalità con le quali il Terzo settore nel nostro Paese mette in campo le sue azioni».

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