INDIPENDENZA ECONOMICA, PERCHÉ È SEMPRE PIÙ IMPORTANTE PER LE DONNE (E PER GLI UOMINI)

Per il World Economic Forum, per parità di opportunità e partecipazione economica con gli uomini, l’Italia è in posizione 117 su 148 Paesi, perdendo sei posizioni in un anno. Per divario di reddito siamo in posizione 114. Eppure il tema dell’indipendenza economica «riguarda tutte e tutti». Dialogo con l’economista femminista Azzurra Rinaldi

di Ilaria Dioguardi

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«L’indipendenza economica non riguarda solo le donne. È sempre più importante che uomini e donne condividano gli obiettivi, che marcino insieme verso un sistema più giusto, più equo e che garantisca a entrambi maggiore benessere», dice Azzurra Rinaldi, economista femminista, direttrice della School of Gender Economics all’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza.

Solo il 4% dei Ceo in Italia è donna

«In tema di indipendenza economica, l’Italia sta arretrando. Secondo l’ultimo Global Gender Report 2025, elaborato dal World Economic Forum, per parità di opportunità e partecipazione economica con gli uomini, l’Italia è in posizione 117 su 148 Paesi, perdendo sei posizioni in un anno, l’anno scorso eravamo in posizione 111. Per divario di reddito tra donne e uomini siamo in posizione 114, perdendo sei posizioni dall’anno precedente dove eravamo in posizione 108. Siamo un Paese che vede, in Italia, solo il 4% degli amministratori delegati (ceo) di sesso femminile», continua Rinaldi. «Siamo un Paese in cui, nonostante le donne siano la maggioranza delle persone laureate, solo il 21% dei dirigenti è donna e aumentano solo quando scendiamo di grado. Ad esempio, nei quadri, la percentuale di donne che occupa ruoli è il 32%».

 

Occupazione femminile al 52,5%

«Di che indipendenza economica parliamo se le donne non possono lavorare? Secondo Inps, in Italia il tasso di occupazione femminile è del 52,5%, quindi poco più di una donna su due lavora», dice Rinaldi. Quante donne lavorano nel mondo, in età lavorativa? «Secondo gli autorevoli dati della Banca mondiale, il 47,3% del totale, meno di una su due. Pensate che non sia poi così male? Allora rilancio con un altro dato: nel 1990, erano il 51,2% del totale», scrive l’economista nel suo libro Le signore non parlano di soldi. Quanto ci costa la disparità di genere? edito da Fabbri Editori. «Sono 18 i punti percentuale che distanziano le donne occupate dagli uomini con occupazione, che sono il 70,4%. Secondo me, il dato peggiore è quello sulla quota di donne inattive, che non solo non hanno un lavoro, ma hanno rinunciato a cercarlo, e nel nostro Paese sono il 42% delle donne in età lavorativa di età compresa tra 15 e 64 anni», continua Rinaldi. «Secondo l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico – Ocse, il 22% delle donne si trova in una condizione di dipendenza economica, dipende dal partner: questo fatto attiva potenzialmente la spirale delle violenze».

indipendenza economica
Economista femminista, Azzurra Rinaldi insegna Economia Politica all’Università Unitelma Sapienza di Roma e Direttrice della School of Gender Economics. Nel 2022 ha fondato Equonomics. Credits Alessia Uy

«Sulle spalle delle donne pesano i tre quarti del carico del lavoro di cura»

Il tema dell’indipendenza economica «riguarda tutte e tutti perché diventa un tema microeconomico e macroeconomico. L’Italia è un Paese meno ricco di quello che potrebbe essere, se solo si creassero le condizioni. Sulle spalle delle donne pesano i tre quarti del carico del lavoro di cura. Se una donna spende sei ore al giorno in lavori di cura non retribuiti, non riesce a trovare lavoro se lo sta cercando, non riesce a progredire se lo possiede. L’Ispettorato nazionale del lavoro dice che il 73% delle dimissioni a livello nazionale vengono da lavoratrici che sono madri. Subito dopo il lavoro di cura generale, è proprio la maternità che espelle le donne dal mercato del lavoro, c’è proprio un rigetto da parte del mercato del lavoro». Rinaldi spiega come «se creassimo le condizioni per far lavorare le donne, ci sarebbe più Prodotto interno lordo, anche lo Stato sarebbe più ricco perché ci sarebbe più reddito da cui rimpinguare le casse dello Stato. In una prospettiva virtuosa, ciò porterebbe ad avere più e migliori servizi, più e migliori infrastrutture per tutte le persone».

Violenza economica

Il tema dell’indipendenza economica è anche culturale. «Sebbene siamo ancorati ad un pensiero nostalgico di quando la donna era a casa e cresceva tanti figli, la verità è che le famiglie monoreddito in Italia, nelle quali quasi sempre a lavorare è l’uomo, non si possono permettere di fare figli. L’Italia è ultima in Europa per il potere d’acquisto del salario medio. Negli ultimi 30 anni i salari sono aumentati e i prezzi sono rimasti al palo. È chiaro che, se una famiglia ha solo un reddito, già è tanto se riesce a fare un solo figlio, non arriva a due, figuriamoci a tre o più. Nei Paesi in cui le donne hanno le condizioni per poter lavorare, si vive meglio, ci sono servizi per le famiglie, asili nido, scuole a tempo pieno: le donne sono più ricche e possono fare più figli».
Nel report di WeWorld Ciò che è tuo è mio. Fare i conti con la violenza economica, si legge che, tra le intervistate dell’indagine, «il 49% delle donne dichiara di aver subito violenza economica almeno una volta nella vita, percentuale che sale al 67% tra le donne divorziate o separate; più di una donna separata o divorziata su quattro (28%) dichiara di aver subito decisioni finanziarie prese dal partner senza essere stata consultata prima».

«Capitalismo e patriarcato sono due facce della stessa medaglia»

Il modello di società a cui siamo abituati è un modello patriarcale, anche nell’organizzazione delle attività economiche. «Con la nascita del capitalismo, si spostano i luoghi di lavoro, nelle industrie. Capitalismo e patriarcato sono due facce della stessa medaglia. Gli uomini si occupano del lavoro produttivo, fuori casa e guadagna il denaro, le donne del lavoro riproduttivo, dentro casa, senza il denaro. Come dice Silvia Federici, il lavoro riproduttivo è, a tutti gli effetti, lavoro produttivo perché se non c’è chi partorisce e chi cresce i figli, non c’è poi manodopera per lavorare. Questo sistema ci restituisce i dati che vedevamo prima», prosegue Rinaldi. «In Italia, se ci si basasse sul merito, essendo le donne la maggior parte delle laureate, dovrebbero occupare più posizioni di potere e guadagnare di più. È il sistema di potere che lascia fare, per sopravvivere. Tutti i sistemi di potere si autoproteggono per sopravvivere. È un tema non solo di giustizia sociale, ma anche di inefficienza dal punto di vista economico: se il mercato fosse perfetto, sarebbero le donne ad occupare maggiormente posizioni apicali. Invece, questo non succede proprio perché c’è questo sistema di potere».

Il 68% delle donne ha problemi a parlare di denaro

Nel suo ultimo libro Come chiedere l’aumento. Strategie e pratiche per darti il giusto valore (Fabbri Editori), Rinaldi affronta un altro tema urgente: negoziare il proprio compenso. «C’è uno stereotipo legato al fatto che parlare di soldi non è consono alle donne. Che infatti, non contrattano uno stipendio, ma non parlano di soldi neanche nel posto più sicuro: il gruppo più ristretto di amiche. Un dato fa ben comprendere quanto noi donne siamo poco abituate a parlare di denaro: il fatto che a contrattare il primo stipendio sia solo il 12,7% delle donne». Nel libro citato poco fa, Rinaldi riporta un’indagine che l’app finanziaria Revolut ha realizzato insieme alla società di ricerche Dynata su un campione rappresentativo della popolazione italiana maggiorenne, secondo la quale «il 23% degli uomini intervistati dichiara di avere difficoltà nel parlare di denaro e nel richiedere un aumento di stipendio. Ma è ben il 68% delle donne ad avere problemi a parlare in generale di denaro». «Noi donne dobbiamo imparare a farci avanti, dobbiamo darci una chance, dobbiamo imparare a chiedere», conclude Rinaldi. «Dobbiamo prenderci il nostro spazio, non aspettare che ce lo diano le aziende. Forse è il caso di iniziare…».

Foto di Claudio Poggio su Unsplash

 

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