LAVORO SOCIALE ALLA RISCOSSA

Dopo MafiaCapitale si è diffusa una sfiducia generalizzata. Bisogna ripartire da quanto di buono e onesto c'è. Perchè è tanto.

Le risorse economiche vengono dalle risorse sociali e non il contrario”. (Amartya Sen)

 

Metro-S.M.Soccorso.
Roma. La protesta dei fiori alla fermata metro Santa Maria del Soccorso

Nel 2010 uscì un libro. Si chiamava “Blacks Out – un giorno senza immigrati” di Vladimiro Polchi, Editori Laterza. Tra finzione e realtà, raccontava di un sciopero di tutti gli immigrati e portava il lettore a riflettere su cosa accadrebbe se, un giorno, davvero tutti gli immigrati decidessero di incrociare le braccia. Si fermerebbero le industrie, i mercati ortofrutticoli, il mondo della ristorazione e i servizi di assistenza; si fermerebbero anche i campionati di calcio e di basket.
Se volessimo scrivere un libro stile Polchi, ci potremmo immaginare cosa succederebbe alla città di Roma se non esistessero più gli operatori sociali. A sostenere queste mie affermazioni intervengono una serie di dati. Ne cito solo qualcuno.
Parto da una ricerca realizzata da un soggetto proveniente dal mondo economico.
Nel lavoro proposto da Unicredit Foundation del 2012 “Ricerca sul valore economico del Terzo Settore in Italia” si legge: “Rafforzare il ruolo del terzo settore significa migliorare la nostra società del domani, poiché le realtà non profit costituiscono una risorsa fondamentale per dare risposta ai bisogni emergenti delle comunità”.
Dal punto di vista del valore economico, la ricerca quantifica un volume di entrate stimato di 67 miliardi di euro, pari al 4,3% del Pil, in deciso aumento rispetto ai dati Istat del 2001, che attestavano tale cifra a 38 miliardi di euro, pari al 3,3% del Pil. “Dati ancor più significativi”, si legge ancora nello studio, “se accompagnati da una quantificazione del risparmio sociale derivante dalle ore di lavoro messe gratuitamente a disposizione dai volontari e, ancor più, dal benessere materiale e immateriale apportato a chi beneficia dei progetti e servizi del privato sociale. Per lungo tempo, infatti, lo studio delle scienze sociali, in particolare dell’economia, ha fatto riferimento ad un concetto di benessere identificabile con l’aumento della ricchezza individuale. Oggi, invece, è ampiamente riconosciuto che lo ‘star bene’ delle persone è associato non soltanto al soddisfacimento dei bisogni materiali e immateriali, ma anche a quello dei bisogni relazionali e che tutto ciò concorre a rendere più competitivi i territori che ne hanno introiettato l’importanza”.
Questa ricerca misura, tra l’altro, la reputazione dei soggetti del Terzo Settore attraverso la soddisfazione dell’utenza ed emerge che il 79% degli intervistati rileva la qualità relazionale del servizio, il 60% l’elevata professionalità delle risorse umane impiegate, il 52% la personalizzazione del servizio offerto, il 48% la qualità delle informazioni e, infine, quasi il 37% riporta la velocità nell’erogazione dei servizi, valore aggiunto del non profit che non conosce “liste d’attesa”.

La fiducia resta, nonostante MafiaCapitale

Ma era il 2012 e i dati si riferivano all’anno prima. Prima di MafiaCapitale, prima della tempesta mediatica che, in alcuni casi, ha buttato tutti in un unico calderone, prima del sarcasmo che si scorge nei volti di qualcuno quando si dice di lavorare in una cooperativa sociale. E, invece, le ricerche e i dati proseguono.
Nel Dossier Censis “Salvare il sociale” presentato a Giugno 2015, si legge che le attività svolte dal privato sociale con il sostegno del finanziamento pubblico sono molteplici: dai servizi per minori e famiglie, a quelli per anziani e disabili, dai servizi dedicati ai tossicodipendenti, ai senza fissa dimora e agli stranieri, fino a tutta una parte di servizi innovativi, come quelli attenti alla socializzazione, al lavoro di comunità, alla promozione dell’agio e non solo alla cura del disagio.  “Nei fatti”, si legge nel dossier Censis, “importanti quote di bisogni sociali trovano oggi una risposta quasi interamente garantita dalla presenza del privato sociale e si tratta spesso di bisogni e servizi di particolare complessità”.
Tutto ciò a fronte di un taglio del Fondo per le Politiche sociali che è passato da 1,6 miliardi di euro nel 2007 a soli 43,7 milioni nel 2012, recuperando in piccolissima parte nel 2014 (297,4 milioni). In sostanza, in quasi dieci anni c’è stata una riduzione dell’81%.
Anche il dossier Censis sottolinea il ruolo che i cittadini stessi attribuiscono al privato sociale, a cui riconoscono una presenza ed una capacità di risposta spesso immediata ed anche emergenziale che li ha affiancati in questi anni difficili.
I dati mettono in luce che la fiducia dei cittadini rispetto alla gestione del denaro pubblico, è massima nei confronti delle forze dell’ordine (74,7%), si presenta alta anche nei confronti delle organizzazioni del volontariato (67,8%) e del terzo settore (52,3%), mentre si riduce drasticamente nei confronti delle istituzioni come i Comuni (29,1%) e le Regioni (20,7%).
Nella sfiducia generale, soprattutto nei confronti dei soggetti pubblici, viene attribuita una patente di legittimità a soggetti del privato sociale, tendendo a considerare isolati i casi di abuso ed illegalità che hanno coinvolto alcuni di essi.

Raccontare ciò che c’è di sano

E allora cosa succede? Succede che il lavoro sociale è ancora importante per molti. E succede, anche, però, che proprio i lavoratori sociali non possono e devono adagiarsi. E non possono neanche solo irritarsi. Devono sentire il bisogno di raccontare quello che fanno, di ribadire la loro onestà intellettuale e materiale, di prendere le distanze, di pretendere che si parli di cooperative “malate” ma – nello stesso tempo – che si parli anche di quelle sane. Nei tanti articoli che si sono susseguiti dopo l’esplosione della bomba di MafiaCapitale spesso si è letto che la sospensione e il ribadire che la cooperazione non è Buzzi, sono reazioni dovute, bisogna andar oltre, bisogna certo prendere le distanze, ma occorre una più profonda discussione e autocritica. Sono molto d’accordo, ma dire – e trovare tutti i modi per dimostrarlo e farlo vedere alla gente – che le cooperative sociali “non sono Buzzi” è fondamentale. Bisogna partire da qui. D’altronde ci sono state, in passato, molte occasioni in cui alcune organizzazioni del terzo settore sano hanno provato a denunciare, a far sentire la propria voce, a costruire facendo proposte. E mi riferisco, solo per fare alcuni esempi, al Cnca (Coordinamento nazionale comunità d’accoglienza, nato negli anni ‘80 a cui aderiscono circa 250 organizzazioni presenti in quasi tutte le regioni d’Italia, fra cooperative sociali, associazioni di promozione sociale, associazioni di volontariato, enti religiosi) e al Roma Social Pride nato nel 2010. C’è un mondo di cooperative sociali, a Roma e da altre parti, fatto di persone che lavorano, che lo fanno onestamente e appassionatamente, che credono fermamente nella bontà del loro lavoro, che non si arricchiscono, che costruiscono progetti (rispondendo onestamente a bandi pubblici – e quindi a volte vincendoli e a volte no) con l’intento vero di costruire opportunità, di occuparsi delle persone, di rispondere ai loro bisogni e di difendere i loro diritti. 

Equilibristi del cambiamento

roma pride
Roma Social Pride 2015

Vi porto il mio vissuto, sicuramente personale ma – penso – condiviso da molti colleghi e voglio raccontarvi gioie e dolori dell’operatore sociale. Parto dai dolori, così concluderò col bello, col perché – nonostante tutto – vogliamo continuare a lavorare nel sociale, quindi finirò con la pars costruens. Col sociale non ci si arricchisce, si lavora tanto e in tanti servizi e progetti contemporaneamente e questo per una serie di motivi. I progetti e i servizi spesso hanno una durata annuale, quando si è fortunati durano due/tre anni, dopodiché ci sono nuovi bandi. E visto che il bando è pubblico e si può anche perdere, non si può decidere di lavorare in un unico servizio perché se si perde il bando si perde il lavoro. E allora bisogna essere equilibristi (“Equilibristi” è il titolo del libro a cura di Andrea Morniroli – Edizioni Gruppo Abele 2015), che è un modo bello per chiamare i precari, quelli che il lavoro ce l’hanno oggi, ma può darsi che lo perdano domani. Quindi, si lavora in tanti progetti e servizi perché semplicemente bisogna garantirsi un sostegno economico e provare a fare dei progetti di vita. Negli ultimi mesi, poi, il sociale a Roma sta attraversando un periodo ancor più difficile del passato. Il dopo MafiaCapitale ha intensificato controlli, divieti e leggi – e di questo siamo contenti, lo siamo perché “ci giochiamo la faccia” ed esigiamo che si faccia pulizia, che si capisca la differenza. Ma il rischio che si sta correndo e che tutto ciò, anziché generare cambiamento, stia provocando unicamente immobilismo in una città già molto sofferente. Ma non è solo una questione economica, seppur vitale, legata ai continui tagli in diversi settori occupazionali a preoccupare. È qualcosa di più profondo che tocca l’identità professionale, qualcosa di più insinuante e probabilmente di più pericoloso. Gli operatori sociali, così come le persone alle quali ci si rivolge, stanno vivendo la forte percezione di sentirsi “smontati, respinti, banalizzati”. È come se il lavoro sociale – dopo decenni – non fosse più utile a nessuno, come se non fosse lavoro. E invece il lavoro sociale è un lavoro, un lavoro vero ed è un lavoro professionale. All’inizio siamo partiti dalle comunità di vita e terapeutiche per tossicodipendenti e persone disabili. E a gestirle erano soprattutto persone che con le dipendenze e la disabilità avevano esperienze dirette o indirette, in quanto familiari o amici.  Successivamente questi contesti di cura si sono specializzati: accanto alle persone che le gestivano – prima senza formazione specifica se non quella che veniva da un’esperienza personale – si sono affiancate varie figure professionali: assistenti sociali, educatori, psicologi, psicoterapeuti. Col tempo, siamo cresciuti anche nella tipologia di servizi e progetti e gli interventi si sono diversificati oltre la classica presa in carico individuale. Si lavora ancora con il disagio, ma abbiamo cominciato anche ad occuparci dell’agio e dei servizi per il benessere e ad occuparci di lavoro di comunità: dalle unità di strada ai centri aggregativi giovanili, dagli interventi di mediazione sociale e culturale ai laboratori scuola-territorio, dai progetti di inserimento socio-lavorativo all’agricoltura sociale. E si sono aggiunte nuove figure professionali: antropologi, sociologi, mediatori culturali, insegnanti di italiano come lingua seconda, esperti in bilancio sociale, budget e contabilità gestionale, esperti in fundraising, giornalisti e addetti stampa. Naturalmente ci si è interrogati anche su questo. Professionalizzare sì, ma la pura tecnica dell’esperto non esaurisce il ruolo e la mission del lavoro sociale che trova una sua importante ragion d’essere nella relazione. Insomma, per essere un buon operatore sociale la tecnica è una condizione necessaria, ma non sufficiente. Il centro del nostro agire è diventato sempre di più il territorio, attraverso la creazione di relazioni significative con reti locali e rapporti con le istituzioni locali, oscillando tra sussidiarietà (come vuole la legge 328/00), sostituzione o supplenza, nel peggiore dei casi. E queste nuove pratiche di lavoro sociale hanno portato a ripensare al bagaglio professionale degli operatori che – a fronte di una formazione di base – hanno cominciato a sviluppare competenze specifiche: l’operatore sociale del territorio è sempre più un animatore territoriale, un facilitatore di relazioni, un operatore sociale comunitario che deve saper attivare le energie presenti in una nuova forma di mutualismo e protagonismo dei cittadini. Lavoriamo nei territori che sono i luoghi della relazione e della possibile coesione sociale, luoghi degli interventi di cura, di prevenzione e di superamento degli ostacoli alla coesione sociale, luoghi in cui ricostruire reti, comunità solidali ed anche opportunità economiche di reddito. Il tutto partendo dal protagonismo delle persone che, da oggetti dell’intervento, diventano sempre più soggetti del cambiamentoL’obiettivo del nostro lavoro è costruire partecipazione, che significa coinvolgere le persone in percorsi collettivi, aumentare le occasioni di socialità, ricostruire una solidarietà diffusa e una diffusione di responsabilità. E le esperienze fatte sono tante: dai condomini solidali, al recupero e pulizia di spazi pubblici, alla creazione delle social street, vere e proprie strade sociali dove fare cose insieme, rispondere ai problemi quotidiani, riappropriarsi del ruolo attivo di cittadini che – oltre la delega e la “richiesta agli organi competenti” – si attivano e si prendono cura del proprio luogo di vita.

Il futuro sta nella comunità

Questa è la mia narrazione e quella di tanti altri colleghi con i quali ho lavorato e continuo, non senza difficoltà, a lavorare. Non siamo lavoratori di serie B solo perché non produciamo cose concrete. Produciamo capitale sociale, fondamentale per lo sviluppo dei territori e che da più parti viene riconosciuto come un motore di sviluppo per il nostro Paese. Anche nelle migliori delle rappresentazioni, non siamo benefattori, gente di buona volontà, “buoni samaritani” e niente di più, ma professionisti. Non siamo “troppo amici dei nemici”, cioè di quelle persone che troppi vorrebbero escludere (stranieri e senza fissa dimora in primis, ma anche tossicodipendenti …), ma sicuramente vogliamo promuovere i diritti di tutti, nessuno escluso. E, soprattutto, non siamo tutti “troppo amici degli amici” perché direttamente e tutti associati a vicende tipo MafiaCapitale. È una questione di discernimento e di diversificazione. Gli operatori sociali, le strutture del non profit sono tante, spesso poco conosciute e riconosciute, e non si può e non si deve generalizzare.
Nel Quaderno di lavoro del Cnca del Dicembre 2014 “Generare il sociale” viene fatta un’attenta analisi del mondo del terzo settore. E questo a dimostrazione di quanto siano proprio molte organizzazioni del terzo settore a voler chiarezza e non solo a voler fare annunci “Non siamo Buzzi”. Ed è proprio da questo che il terzo settore deve partire o ripartire: “Il futuro della cooperazione sociale e del suo singolare modello d’impresa non può che stare nella comunità, perché è lì che essa è nata ed è da lì che può ritrovare la nuova linfa”, si legge in “Equilibristi”. Il lavoro sociale produce capitale sociale, fondamentale per lo sviluppo dei territori.

Lavoro sociale: se c’è o non c’è non è la stessa cosa

Via Silvano (2)
Roma. La protesta dei fiori in Via Silvano

Ma affinché questo arrivi a tutti – senza che attorno alle parole “cooperazione” e “terzo settore” nascano sospetti – è necessario che il lavoro sociale si racconti nella totalità delle esperienze che costruisce. È necessaria una narrazione ed una rappresentazione diversa.
E, soprattutto, non basta più solo dirlo ma farlo anche vedere il lavoro sociale onesto, bello, trasparente affinché il perché gli operatori non possiamo farne a meno non lo sappiano solo gli addetti ai lavori che leggono le ricerche o le persone che usufruiscono dei servizi e dei progetti nei vari territori, ma possano saperlo e sperimentarlo in tanti. Se si blocca la metro o se le strade sono sporche, tutti lo vedono, tutti ne sono danneggiati e il disagio colpisce l’intera città, perché questi sono servizi che servono a tutti. Se finisce un progetto, il disagio colpisce tutti? Tutti se ne accorgono? Nell’immediato non tutti, certo; sicuramente non come la metro guasta o i cassonetti che debordano. L’idea è che il lavoro sociale non serva a tutti, ma solo a chi sta male. E invece no. Bisogna capovolgere questa visione. Il lavoro sociale è per tutti e se c’è o non c’è non è esattamente la stessa cosa. E questo dobbiamo dirlo e ridirlo e farlo vedere. Quindi sì, assolutamente sì ad articoli e servizi giornalistici sulle inchieste, li vogliamo anche noi. Ma li vogliamo nella misura in cui si possa parlare e far vedere anche quello che si costruisce di bello e che spesso rimane nascosto, o non interessa perché non fa rumore e quindi non fa notizia. Negli anni, noi operatori sociali ci siamo attrezzati nella comunicazione “di massa” e non solo nelle comunicazioni di settore per gli addetti ai lavori. Abbiamo imparato ad usare i social network e i siti web. In alcuni casi (non molti ancora per un questione meramente economica) nelle nostre equipe, oltre a psicologi, assistenti sociali, educatori, antropologi, abbiamo inserito giornalisti e addetti stampa. Per alcuni servizi – sicuramente per i progetti di comunità – la comunicazione sociale acquista un valore centrale, allo stesso modo di qualsiasi intervento specifico. E abbiamo cominciato a vedere anche i primi feedback. I social network sono seguiti, si crea comunità anche – e non solo naturalmente – attraverso Facebook. Rimane la centralità della relazione, dell’incontro vis a vis, rimane la potenza delle parole scambiate guardandosi negli occhi, ma la comunicazione e la promozione di ciò che si fa sono ottimi strumenti se usati con l’obiettivo di coinvolgere, di rafforzare la partecipazione, di stimolare il protagonismo dei cittadini. Ma – lo abbiamo verificato – quando alle nostre iniziative arriva la stampa ufficiale, o magari la televisione, tutto assume un’eco diversa e anche le stesse cose che facciamo, magari da anni, sembrano più belle.

Lavori un decennio poi basta un tweet di Gassman…

Da anni nei nostri progetti in vari territori della città ci occupiamo dell’estetica, della bellezza e della pulizia dei luoghi. E, quindi, aderendo alle campagne “Puliamo il Mondo” di Legambiente e, ultimamente, collaborando attivamente con alcuni gruppi Retake, facciamo pulizie di piazze, strade, parchi, stazioni metro, coinvolgendo cittadini, commercianti, bambini, scuole, associazioni, parrocchie…. Lo facciamo da una decina d’anni per costruire relazioni e rafforzare i legami sociali delle e nelle comunità. È bastato che Alessandro Gassman scrivesse un tweet, per far aumentare l’attenzione dei media.
E così a fine Luglio a Pietralata (zona est di Roma), dove avevamo organizzato un ennesimo pomeriggio di pulizie, sono arrivati i giornalisti di tre televisioni: Rai2, La7 ed una tv svizzera. Le prime domande che mi sono state rivolte sono state “Cosa la porta a stare qui, la rabbia perché sta facendo una cosa che dovrebbe fare il Comune di Roma e che non fa?” oppure “Quanto è stato utile il tweet di Gassman per sollevare il popolo?”.  Non è né la rabbia, né Alessandro Gassman. Queste cose le facciamo da anni perché crediamo nella responsabilità dell’essere cittadini, perché la comunità solidale diventa generativa nel momento in cui costruisce percorsi di cura degli spazi di tutti e questi percorsi rafforzano i legami sociali di cui abbiamo tutti bisogno. Chi – come me – fa queste cose da anni, e ancora di più in questo momento così delicato per Roma, lo fa perché semplicemente ama Roma e la sogna bella e pulita e accogliente per tutti. Detto ciò, Alessandro Gassman ha fatto una cosa egregia, intanto come cittadino è riuscito in poche parole ad accendere i riflettori e di questo dobbiamo assolutamente ringraziarlo. Ma allora le domande sono:

  • siamo poco incisivi noi a comunicare ciò che facciamo?
  • serve essere noti per suscitare interesse?
  • qual è l’obiettivo dei media? Raccontare la città tutta o dare maggiore spazio alle notizie che suscitano clamore, fanno rumore e alimentano polemiche e paure?

E allora ai giornalisti dico: ascoltateci un po’ di più, veniteci a trovare nei quartieri dove proviamo a proseguire il nostro lavoro, a volte come Don Chisciotte, scrivete qualcosa di noi sui vostri giornali, guardate dove altri non guardano e ascoltate ciò che altri non vogliono ascoltare, aiutateci a rendere concreta questa nuova narrazione di cui ha bisogno il sociale oggi.

LAVORO SOCIALE ALLA RISCOSSA

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