LEZIONI DI UMANITÀ: LA NORMALITÀ DEL BENE

Lezioni di Umanità, film di Branko Ištvančić, racconta il salvataggio di trecento pazienti, perlopiù psichiatrici, durante la guerra in Croazia del 1991. Soccorritori e infermieri erano persone normali, come tutti noi

Hannah Arendt parlava della banalità del male. Lezioni di Umanità (Pouke o čovječnosti) è un film che invece mostra la grande potenza della normalità del bene. Così Ksenija Fonović, CSV Lazio, ha introdotto il dibattito seguito alla proiezione del film di Branko Ištvančić, tratto dall’omonimo libro scritto da Veljko Đorđević, in una serata organizzata dall’associazione Mosaico Italo Croato Roma, allo spazio Scena. La normalità del bene, in Lezioni di umanità la chiave è proprio questa. Perché Olivera, Marko e tutte le persone che si sono trovate coinvolte in questa storia sono persone normali. Persone come tutti noi. Lezioni di Umanità (Pouke o čovječnosti) racconta una storia molto speciale. I difensori della Croazia di Pakrac, insieme a una parte del personale dell’ospedale della città, durante l’evacuazione umanitaria organizzata e attuata nella serata del 29 settembre 1991, salvarono da morte certa circa trecento pazienti, di cui la maggior parte erano malati psichiatrici di nazionalità serba. Quell’atto viene considerato come una delle più nobili azioni intraprese dai difensori croati, con la quale guadagnarono il titolo di eroi dell’umanità. «Questa storia ha una grande potenzialità» ci ha raccontato Nikša Kušelj, aiuto regista e cameraman del film, intervenuto a Roma. «C’è un’incredibile metafora: ci sono pazienti psichiatrici in ospedale che cercano una pace mentale, mentre sono circondati sulle colline da quelli che sono i veri pazzi. La vera pazzia era quella, in quegli anni».

lezioni di umanità
Marko Martinelli: «I pazienti non volevano venire via, per convincerli abbiamo dovuto dire loro che stavamo andando in discoteca»

L’abbiamo fatto come lo fareste anche voi

All’ospedale di Pakrac, oggi abbandonato, il tempo si è fermato a quel 1991. Quel buco attraverso il quale sono stati fatti evacuare i pazienti è ancora aperto. Il film ci riporta indietro a quegli anni, a partire dal 1989, quando i partiti politici sono saliti alla ribalta e in un’escalation continua si è arrivati alla guerra.  A Pakrac, inizialmente, non si sentono coinvolti: il sindaco dice che città appartiene a tutti. Ma la guerra inizia. All’ospedale nessuno dorme la notte, si aspetta un attacco da un momento all’altro. E l’attacco arriva un lunedì, alle 5.05 di mattina. L’ospedale viene colpito continuamente. I pazienti e gli armadi con i medicinali vengono spostati nei corridoi per non rimanere vicino alle finestre. Ma non si può più uscire. E si tratta di tenere calmi i pazienti. A un certo punto si riesce ad evacuare l’ospedale. I pazienti vengono portati fuori di sera, tra le 19.30 e le 23.30, in abiti scuri e in silenzio, passando proprio attraverso quel buco nel muro della cantina. «Dietro a questa storia ci sono tante piccole storie, meriterebbe di essere un lungometraggio», ci spiega Marko Martinelli, uno dei protagonisti, dell’operazione di salvataggio. «È stato un atto eroico: non eravamo del tutto consapevoli di quello che stava accadendo, lo abbiamo fatto come lo avreste fatto anche voi se vi foste trovati al nostro posto».

Andare in discoteca…

Alcuni dei pazienti si reggono a malapena in piedi, altri vengono portati in braccio, o in spalla. Per i soccorritori non è facile. Tra i pazienti ci sono persone che non si lavano da giorni, e l’odore è fortissimo, tanto che a molti dei soccorritori vengono colti da conati di vomito. C’è anche una delle pazienti che, una volta fuori, chiede di fare sesso a uno di loro. Che oggi, nelle interviste che vediamo nel film, raccontano questi episodi con un po’ di ironia, un sorriso, quello che si può avere ricordando le cose dopo molto tempo. E il film, per un attimo, acquista una leggerezza che stempera la commozione del racconto. «Gli aneddoti sono tanti, anche quelli che non abbiamo raccontato» ricorda Marko Martinelli con un sorriso. «Ognuno ha vissuto le sue piccole cose. Questi pazienti non volevano venire via, per convincerli abbiamo dovuto dire loro che stavamo andando in discoteca». Tanti di questi aneddoti, e molte delle riprese, sono arrivati in modo spontaneo, non pianificato. «La dottoressa Vidovic non la stavamo filmando, ma avevo una piccola videocamera Black Magic» ricorda Nikša Kušelj.  «Allora facevo finta di non filmare. Il momento in cui preme la maniglia per aprire è una scena vera che sono riuscito a riprendere. Non mi pareva vero che fossi riuscito ad avere una scena del genere».

Quella porta ancora aperta

I soccorritori erano tutte persone ordinarie, senza capacità organizzativa, senza una grande preparazione. Per fortuna, è andata bene. E anche per questo il ricordo è fatto con dolcezza, con un leggero sorriso da parte loro. Ma da parte di chi si trovava nell’ospedale c’è tanta commozione. Colpisce l’attaccamento al lavoro, ai pazienti, all’ospedale da parte di queste persone. Così legate a tutto questo da festeggiare anche il Capodanno con delle feste nello scantinato dell’ospedale. O da non voler lasciare il luogo neanche nel momento dell’evacuazione. La Dottoressa Vidovic è stata implorata di lasciare l’ospedale con i pazienti. Gli infermieri, una volta fuori, lasciano la porta aperta, perché un giorno possano tornare. Non sarebbero più tornati lì. Anche se il loro sogno è quello di vedere quell’ospedale rimesso a nuovo. E quella porta oggi è ancora aperta. «Sembra che ora vogliano farci una casa per anziani, siccome mi manca poco alla pensione potrei tornarci in questo modo» scherza Olivera Zelić, una delle infermiere protagonista della storia. «Per me personalmente non c’è speranza di tornare come infermiere a vedere l’ospedale com’era una volta. Quella porta è sempre aperta, l’ha lasciata aperta il mio defunto marito, e ha sempre lottato per ripristinare l’ospedale. Non ci è riuscito, è una cosa che mi farà male sempre». «Era un ospedale molto grande, c’erano 350 letti e 145 dipendenti» continua. «Era il punto di riferimento per una vasta area, sappiamo quanto importante sia oggi quel tipo di struttura. Purtroppo oggi mancano anche i medici psichiatri. E dicono di non volere un ospedale psichiatrico perché non vogliono una città dei pazzi».

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Olivera Zelić è una delle infermiere, protagonista della storia. «Quella porta l’ha lasciata aperta il mio defunto marito, e ha sempre lottato per ripristinare l’ospedale. Non ci è riuscito».

Sono gli angeli a proteggerti

In quell’ospedale Olivera e gli altri non sono più tornati. «Sono passati 30 anni» ricorda. «Tre giorni dopo l ‘evacuazione il ministro della salute mi ha ricollocato in tre ospedali psichiatrici, io ho avuto un ruolo nuovo, ho iniziato a lavorare con gli uomini, con pazienti gravi, mentre a Pakrac ero nel reparto femminile». Con quelle pazienti è rimasto un rapporto particolare, a dimostrazione che per Olivera e gli altri quello era molto più di un lavoro. «Abbiamo mantenuto i contatti a lungo, venivano a trovarci al reparto» ci racconta. «Allora ero molto giovane. Le mie pazienti mi guardavano come una bambina, avevano un atteggiamento protettivo nei miei confronti. Una sera una di loro mi ha fatto andare nel suo letto per proteggermi, per dirmi che erano gli angeli a proteggermi. Erano pazienti psichiatrici che erano postivi, avevano una grande anima. Per cui rimane una grande nostalgia».

 

 

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