LA SOCIETÀ ESISTE. SERUGHETTI: SERVE UNA NUOVA GRAMMATICA DELLE LOTTE

Nel suo La società esiste Giorgia Serughetti racconta la storia che ci ha portato al mondo in cui viviamo oggi e analizza le più recenti forme di attivismo sindacale, ambientalista e femminista

Margaret Thatcher divenne prima ministra del Regno Unito nel 1979. Quella famosa intervista rilasciata al giornalista Douglas Keay per la rivista Woman’s Own che contiene la celebre affermazione “There is no such thing as society”, “la società non esiste” è del 1987. È da questa frase, e dal mondo che ne è scaturito che parte Giorgia Serughetti per costruire il suo nuovo libro, La società esiste (Laterza 2023), che racconta tutte le conseguenze di quella frase e dell’ideologia che sottendevano, per arrivare ad affermare che invece la società resiste e come oggi riemerga il desiderio di scelte e politiche radicali che parlino di solidarietà, di responsabilità collettiva, di uguaglianza. Il libro verrà presentato a Roma il 9 dicembre alla Nuvola nell’ambito di Più libri più liberi con Elly Schlein e Marco Damilano e a Torino il 19 dicembre al Circolo dei Lettori con Jacopo Rosatelli, Marianna Filandri e Marco Revelli.

 Chi siamo stati, chi siamo e chi possiamo diventare

la società esiste
Margaret_Thatcher_(1983) By Rob Bogaerts – Nationaal Archief

Gli anni tra il 1979 e il 1987 sono stati quelli che hanno segnato la fine del welfare consensus del dopoguerra, cioè la convergenza delle diverse forze politiche nel supporto all’interventismo statale e all’alta spesa pubblica volta a sostenere i salari, la piena occupazione e il benessere sociale. In quegli anni la Lady di ferro ha combattuto i sindacati, ha dato il via a un’ampia opera di privatizzazione delle imprese statali e dei beni pubblici, a una promozione della libera iniziativa economica e della proprietà privata, una liberalizzazione del mercato del lavoro, una riduzione delle tasse ai più ricchi e all’abbandono della progressività fiscale. Secondo la Thatcher, l’omologo leader degli Stati Uniti, Ronald Reagan, solo mercati lasciati liberi di operare avrebbero potuto soddisfare le ambizioni di autorealizzazione dei cittadini. Quell’affermazione di Margaret Thatcher, ha finito per sintetizzare un’intera visione del mondo, e di lanciare un nuovo senso comune della politica occidentale, una nuova ideologia, il neoliberismo, che aveva come faro la fede nel libero mercato come meccanismo sovrano. Il concetto di individualismo, di responsabilità personale allora ha decretato la fine della parola solidarietà e della visione del mondo che esprime. Un’ideologia che ha dato il via a politiche che hanno messo in crisi la cittadinanza fondata sui diritti fondamentali, la delegittimazione del welfare, la demolizione del pubblico. E ha fatto venire meno i vincoli di solidarietà, fenomeni di secessione delle élite dal corpo della società, diseguaglianze di classe, gerarchie di genere e di razza, crisi della rappresentanza, frammentazione delle identità politiche. Eppure ci sarà sempre qualcosa di più grande degli individui. Il sociale come spazio di conflitti collettivi da affrontare a di pratiche di solidarietà, uno spazio che è possibile modellare attraverso la politica. Con La società esiste Giorgia Serughetti coglie i segnali di rinascita della società, della dimensione collettiva, della solidarietà. Non prima di aver raccontato la storia che ci ha portato al mondo in cui viviamo oggi, ci racconta le più recenti forme di attivismo sindacale, ambientalista e femminista capaci di unire difesa del lavoro e del clima, lotta per il reddito e per i diritti civili, battaglie contro le discriminazioni di genere e contro la violenza razziale. La società non esiste è un libro illuminante che ci racconta chi siamo stati, chi siamo e chi possiamo diventare. Da avere e leggere assolutamente.

Quella frase di Margaret Thatcher, “La società non esiste” ha avuto il potere di costruire un mondo…
«È stata così pervasiva, così efficace nella sua capacità di costruire un mondo perché ha mobilitato dei significati positivi come “libertà”, un termine ridotto alla libertà individuale e di mercato, modellando tutte le libertà sui canoni del mercato. Dire che la società non esiste in questa profezia ha significato negare l’esistenza di un dovere dello Stato, dei poteri pubblici di intervenire nel raddrizzare i torti sociali. Quando Thatcher dice “la società non esiste” non vuol dire che gli individui tra loro non si relazionino. Il suo vero obiettivo polemico è lo stato sociale, la mentalità socialista che attribuisce alla collettività e alle istituzioni pubbliche la responsabilità di ridurre le diseguaglianze. Che nella visione neoliberista sono una semplice questione di sorte delle singole persone rispetto alla quale le persone sono chiamate e rispondere attraverso i loro talenti, il loro darsi da fare, assumendosi in proprio una responsabilità. La responsabilità personale soppianta così la responsabilità collettiva, che viene negata, mentre sarebbe quella che invece deriva dal riconoscimento che esiste una interdipendenza tra le persone e una dipendenza dalle infrastrutture che sostengono la vita. Questo viene negato, cosi come viene negata l’esistenza di poteri che agiscono nel sociale e che producono diseguaglianze, ingiustizie e che non si riducono solo a quel potere verticale tra lo Stato e i cittadini. Ma sono forme di potere che esistono nella società: sono i poteri esercitati a livello economico, patriarcale, razziale. Negare la società in fondo significa anche negare che esistano ingiustizie che non è nel potere degli individui raddrizzare. Ma che richiedono un’architettura di diritti civili, politici e sociali che devono essere garantiti dalle istituzioni pubbliche».

Il neoliberismo ha portato a fratture, tra alto e basso, centro e periferie, io e altri, noi e loro

la società esiste
Giorgia Serughetti

«Il non riconoscimento di ciò che vincola le persone a una collettività, e quindi la dimensione dei doveri pubblici nei confronti delle persone e dei doveri che stanno in capo a chi ha di più nei confronti di chi ha dimeno, ha favorito la secessione delle élite dal corpo della società. È qualcosa che fa regredire l’idea democratica, la condizione del demos, perché consente a una parte della collettività di vivere slegata dal resto: dal paese in cui vive, dal contesto sociale. Le nuove élite sono sempre più deresponsabilizzate nei confronti del collettivo di appartenenza, sono élite che vivono ovunque e in nessun luogo e si procurano da sé, sul mercato, come avrebbe voluto Thatcher, la risposta ai propri bisogni: l’educazione e la sanità di qualità. Visto che spesso nemmeno pagano le tasse nel Paese in cui vivono non sono neanche legati a livello di doveri fiscali. Questo ha favorito una frattura tra alto e basso e fatto sì che si creasse una contrapposizione – che è stata poi politicizzata dal populismo – tra un popolo di perdenti e un élite di vincenti. Questo ha anche a che fare con l’altra frattura, quella tra il centro e le periferie, in cui la periferia non è solo geografica ma sociale e culturale, quel grande mondo periferico rispetto al centro di produzione di ricchezza e di valori che è caratteristica del nostro tempo, in cui centro e periferia comunicano sempre meno in termini di linguaggi e di valori, di capacità di adattamento alle trasformazioni. E questo spiega ancora una volta il panorama politico, in cui chi vive nel centro tende ad abbracciare una serie di valori cosmopoliti e ad essere meno interessato alle dimensioni dell’identità tradizionale, nazionale, locale, mentre nelle periferie è più facile che attecchiscano delle narrazioni identitarie di carattere escludente. Difendere la propria identità diventa anche la chiave attraverso cui escludere i gruppi che minacciano questa identità. E questo ci porta alle altre fratture. Da una parte l’individualismo spinto, che rende le persone sempre più prese a provvedere per sé e sempre meno collegate agli altri nella ricerca del proprio benessere. E dall’altra parte quella sorta di tribalismo di ritorno, la contrapposizione noi/loro, che non è che l’altro lato dell’individualismo esasperato, per cui l’unico legame possibile è quello tra simili, collettività chiuse che si occupano di difendere le prerogative di alcuni contro quelle degli altri. Forme di partizione che dipendono dal fatto di aver negato che qualcosa di più grande degli individui è capace di tenerli insieme e che esistano doveri pubblici nei confronti di tutto e di tutti. La negazione dell’universalismo è una delle matrici di questa deriva».

Uno dei problemi della disgregazione della società è stato il fatto che una serie di battaglie per l’identità ha portato a una frammentazione identitaria delle lotte progressiste, e quindi una crisi della sinistra, che non è stata capace di saldare le rivendicazioni di uguaglianza al riconoscimento delle differenze…
«È un tema che avevo toccato nel libro precedente, Il vento conservatore, in cui facevo vedere come la politica dell’identità della destra populista fosse il contrappunto della politicizzazione dell’identità a sinistra, che negli ultimi decenni ha portato all’evidenza molteplici sfide alla mancanza di riconoscimento delle differenze, ma poi ha preso una strada di forte frammentazione dell’identità e di individualizzazione delle istanze. Fino al punto di fare di ognuna di queste battaglie – quella femminista, quella antirazzista, quella ambientalista – delle battaglie trasformate in comportamento individuale e non collettive e legate ad altre lotte. Per cui una depoliticizzazione di queste istanze e la frammentazione dell’identità, e la dispersione delle battaglie nei mille rivoli del riconoscimento hanno voluto dire proprio lasciare sguarnito il campo le domande di trasformazione radicale della società per incapacità di tenere in vita o ricostruire soggetti politici larghi o includenti».

Nelle ultime mobilitazioni sociali si parla di ricostruire il “noi” e lottare per la “vita”. “Noi” e “vita” sono due termini importanti: vita è un termine in grado di dare unità e senso alle lotte, quello che è mancato finora. Che cosa significa?

la società esiste
«La manifestazione del 25 novembre, autorganizzata, ha avuto un afflusso spontaneo perché c’è il superamento delle frammentazioni identitarie nella ricerca di nuove alleanze, tra soggetti, gruppi organizzati e non, la costruzione di “noi” politici che siano larghi, inclusivi»

«Un esempio può essere quello della manifestazione del 25 novembre, che è stata la più grande degli ultimi decenni, paragonata a quella per la difesa dell’Articolo 18 di Cofferati, in un tempo in cui tutti i soggetti collettivi, politici e sindacali, sono in grande crisi. A differenza di quella di Cofferati, questa manifestazione era autorganizzata, ha avuto un afflusso spontaneo. Perché è successo? Perché c’è questa capacità di convocare delle battaglie con delle motivazioni di massa di tipo nuovo? Perché da una parte c’è il superamento delle frammentazioni identitarie nella ricerca di nuove alleanze, tra soggetti, gruppi organizzati e non, la costruzione di “noi” politici che siano larghi, inclusivi. Il caso del femminismo, della piazza del 25 novembre, è un caso di questo tipo: è una manifestazione guidata dalle donne, ma nel senso più ampio e includente – senza steccati ad esempio rispetto al mondo trans –  aperta a tutte e tutti. Con l’idea che tema della violenza contro le donne sia un tema che riguarda tutti. Ma non solo. Anche pensando al fatto che la violenza contro le donne vada combattuta insieme a tutte le altre battaglie, perché non si vince quella battaglia se non si combattono più ampiamente le diseguaglianze, se non si combatte sul terreno del lavoro, della lotta contro le discriminazioni nei confronti dei migranti, se non si tengono insieme queste dimensioni con quella della sessualità, del riconoscimento di tutte le famiglie. Perché evidentemente c’è una parte della società che viene drammaticamente esclusa da alcuni benefici, e c’è una discriminazione grave in atto. Che tutte queste lotte vadano combattute insieme è stata l’innovazione concettuale e politica del nuovo femminismo che ne favorisce il successo in termini di partecipazione. C’è bisogno di una nuova grammatica delle lotte. In cui al centro ci sia la vita. Una delle cose che emergono dal tempo della pandemia è la rilevanza del tema della protezione della vita, in un tempo che è stato segnato così profondamente dal rovesciamento del rapporto tra mercato e vita. Dove le prerogative del mercato, la logica dell’economia ha prevalso anche sulla logica del benessere delle persone, dando da giustificare il fatto di tagliare il welfare, la sanità pubblica e una serie di interventi capaci di difendere la vita e promuovere la fioritura delle vite. La pandemia che ci ha costretto a fermarci tutti per difendere la vita ha fatto baluginare il senso di un nuovo ordine delle priorità in cui la vita delle persone deve stare al primo posto».

Nel finale del libro, un finale di speranza, parla di una politica terrestre, utopica, ma non nel senso di irrealizzabile…
«L’idea è vedere come le pratiche politiche e sociali anche nel presente sono generatrici di utopia, nella misura in cui rimandano nei loro fatti a un altro mondo possibile, a un’utopia concreta che ha radici nel presente ma che spinge verso un altrove. La riattivazione del pensiero utopico mi sembra essenziale in un tempo che sembra aver perduto l’orizzonte del futuro, schiacciato tra passato e presente: un presente di infelicità in cui rispetto a cui la promessa migliore sembra risiedere nel passato. E da cui sembrano non germinare possibilità di futuro. Che invece devono essere viste come anche generative del nuovo. È un tema che mi ha permesso un tentativo di guardare al qui e ora come un tempo in cui già vive il futuro. E naturalmente il tema del futuro mi ha costretto a riprendere le paure relative alla distruzione del pianeta, che allora erano soprattutto legate all’atomica e ora sono legate alla crisi climatica, anche se l’atomica è sempre lì e la guerra è una minaccia che si aggiunge a quella del riscaldamento del pianeta. Se si tratta di vedere il futuro che è già presso di noi, si tratta di assumersi la responsabilità verso il futuro e verso la Terra.  Da qui l’aggettivo terrestre che risponde a quei sogni visionari, che sono irresponsabili e irresponsabilizzanti, che pensano al futuro come un tempo di fuga della Terra, colonizzare altri pianeti, e non la realizzazione del sogno di scoperta dell’umanità, quanto come una via di fuga da un pianeta infetto e destinato al decadimento. Una politica terrestre è quella che si assume la responsabilità per il presente e per il futuro e fa i conti con i limiti terrestri dell’essere umano. Che è condannato a vivere su questa Terra nella relazione con la natura con la natura non umana e in una relazione di interdipendenza tra persone e di dipendenza dalle infrastrutture sociali che sostengono la vita. Vivere una vita su questo pianeta significa esigere che questa vita sia sostenuta in tutte le sue forme, attraverso anche una società politica».

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la società esisteGiorgia Serughetti
La società esiste
Laterza, 2023
pp. 184 , € 18

LA SOCIETÀ ESISTE. SERUGHETTI: SERVE UNA NUOVA GRAMMATICA DELLE LOTTE

LA SOCIETÀ ESISTE. SERUGHETTI: SERVE UNA NUOVA GRAMMATICA DELLE LOTTE