Louisiana. L’altro lato del sogno americano

“Louisiana – The Other Side” di Roberto Minervini racconta con uno stile unico storie di amore, droga armi e povertà nel profondo Sud dell’America. Sarà presentato il 7 giugno a Capodarco.

di Maurizio Ermisino

Esiste un’altra America. E non è quella che abbiamo visto nei film, nelle pubblicità, nei videoclip. Roberto Minervini con il documentario “Louisiana – The Other Side” ci racconta l’altro lato del Sogno Americano. Vivendo a lungo con loro, è riuscito a entrare in intimità con delle persone della Lousiana, profondo Sud degli States, che vivono isolate e dimenticate dal mondo, e a riprendere le loro storie più intime, che vediamo come se assistessimo a un film di finzione.
Ma la disperazione e le lacrime che sgorgano dallo schermo sono vere.
Sono quelle di una coppia di tossici disperati che vivono di espedienti, segnati da povertà, lutti e dolori, e di un gruppo di reduci di guerra che si preparano a difendersi da soli, ma non si sa da che cosa.
Un’altra America esiste, e non la vediamo mai. E il pregio di Minervini è stato quello di mostrarcela. Scene forti, indelebili. Corpi nudi accarezzati o martoriati. Storie di amore e droga, di armi e solidarietà. “Louisiana – The Other Side”, presentato a Cannes, nella sezione Un certain renard, è stato scelto per un’anteprima di Capodarco L’altro festival (22-27 giugno) che si terrà il 7 giugno.

 

 

Roberto MinerviniCome si riesce a entrare nell’intimità delle persone, a creare la fiducia e a rendersi invisibili?
«È una questione di fattore umano – la mia genuina, vicinanza e affinità a questi personaggi, il conoscere le loro storie e averle in parte vissute – di essere dalla parte dei personaggi con cui lavori. Si crea un “container”, uno spazio dove ci si sente al sicuro. E c’è il fattore professionale: io gioco a carte scoperte, le mie intenzioni sono chiare a tutti, come la mia volontà di far sentire i personaggi parte del processo creativo. Spesso sono loro stessi a portarmi dentro le loro storie, loro stessi a decidere cosa si può girare, sono loro a guidarmi dentro la storia, a decidere le strade. L’intimità ha bisogno di trasparenza. Bisogna parlare chiaro rispetto alle proprie paure, non solo alle affinità. La paura che avevamo l’uno dell’altro è stata messa in chiaro: loro facevano paura a me e anch’io facevo paura a loro. Questa apertura totale permette una certa trasparenza, che  è la base per l’invisibilità. Si diventa invisibili quando ci si conosce».

 

Il film è fatto di scene molto forti. Come si capisce cosa mostrare e cosa non mostrare?
«Penso che uno dei problemi cronici dell’Italia e del cinema contemporaneo sia l’autocensura, per non parlare dell’apparato distributivo. A me non interessa la reazione dell’audience. Cosa far vedere  o no riguarda solo me, e i personaggi. Ci sono immagini forti che, come nei reportage di guerra, riteniamo essenziali per raccontare una storia. Ci sono stati momenti in cui i personaggi hanno voluto che io documentassi con delle immagini la purezza dei loro corpi e l’autoflagellazione degli stessi. Il discorso è quello, l’etica del documentarista mi interessa molto meno della dignità da restituire a questi personaggi. Il discorso avviene esclusivamente tra me e loro, parte dalla loro volontà di mostrarsi e dal mio ritenere opportuno mostrare certe immagini e certe storie.  Io rispetto per la donna incinta che si buca tanto quanto rispetto la donna con la maschera di Obama che simula una fellatio. È un loro modo di darsi a noi, di mettersi a nudo, è dignitoso e trascende il messaggio ideologico e la durezza dell’immagine».

 

Louisiana demolisce il Sogno Americano. La proverbiale seconda possibilità non è per tutti…
«Il Sogno Americano è come uno dei tanti efficienti slogan demagogici americani. È qualcosa di glamour, che vediamo negli spot pubblicitari. Quando il Sogno Americano socioeconomico non è credibile allora si inserisce quello della libertà dai carnefici, della difesa del fratello americano: oggi il momento di crisi economica ha portato a una rinascita fervente del sogno della difesa, che è prendersi a braccetto e difendersi l’un l’altro, in guerra. Il Sogno Americano è qualcosa di propagandistico, e non è mai esistito. La mobilità tra classi sociali è praticamente impossibile, è una chimera, perché manca un sistema di welfare a sostegno delle classi più basse. La tragedia non è tanto l’assenza del Sogno Americano, quanto la manipolazione dei media che continua a parlare dell’America dei sogni. Spostandomi nel Sud ho trovato terreno fertile lontano dall’establishment dell’Est o dell’Ovest per agire indisturbato e raccontare storie vere. Il Sogno Americano del film è quello che ho raccontato: la voglia di arrivare a fine mese, di uscire dalla povertà, di disintossicarsi, di difendere la famiglia. C’è una speranza. Racconto il Sogno Americano che esiste».

 

Il welfare pubblico è assente, e le associazioni che nei film vediamo nelle grandi città qui non arrivano proprio…
«Certamente nel Sud, ma anche nei grandi centri c’è questa assenza. C’è una ragione per cui ho raccontato l’America della tossicodipendenza, soprattutto della metanfetamina che è una droga politica avvallata dall’amministrazione Reagan. Non è un caso che abbia lavorato con tossicodipendenti e veterani di guerra: la dice lunga sulla mancanza di un vero sistema di welfare. Il veterano di guerra trova assistenza grazie al dipartimento per i veterani, il Veterains Affairs: spesso l’assistenza è di tipo psicoterapeutico, con psicofarmaci che danno dipendenza, e i veterani di guerra perdono l’assistenza, diventano dei drogati E il sistema di welfare già fragile viene a mancare. E i veterani vengono arruolati nei centri commerciali. Questo la dice lunga sul sistema di welfare americano, che non solo non arriva a toccare certi territori, ma quando arriva è molto effimero».

 

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La solidarietà allora è qualcosa che nasce in modo spontaneo, tra persone che non hanno niente o tra militari che fondano associazioni per l’autodifesa…
«Ma la mancanza di solidarietà è l’ultimo stadio prima della morte. Il problema è questo. Non è possibile che la solidarietà diventi l’ultima spiaggia per certi gruppi sociali. Che per amore primordiale  sono solidali tra loro, si uniscono. E dicono che la loro speranza è per gli altri, è quella di avere una famiglia. Quando viene a mancare la solidarietà della famiglia viene a mancare tutto. Ho trovato un’estrema solidarietà tra i tossicodipendenti e anche tra i paramilitari, che si armano in modo solidale per proteggere la famiglia. Senza la solidarietà all’interno di questi gruppi, i gruppi stessi non esisterebbero».

 

Il racconto dei gruppi paramilitari ci dice che la guerra è insita, innata nell’America…
«L’America è una società fondata sul conflitto: è un paese che non ha mai smesso di essere in guerra. Quello che continua a scioccare è il fatto che la nuova generazione non ha mai conosciuto l’America in tempo di pace. È un qualcosa che è  nel dna dei giovani americani, la guerra è una condizione costantemente accettate e normalizzata, non solo in certe zone, ma in certi ceti sociali».

Louisiana. L’altro lato del sogno americano

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