MIGRANTI CLIMATICI: SENZA RICONOSCIMENTO NON C’È TUTELA

“Rifugiato climatico” o “migrante climatico” non sono definizioni acquisite a livello internazionale nè categorie giuridiche. Manca uno strumento giuridico specifico a tutela di chi migra per i cambiamenti climatici

Nel 2022 sono stati circa 32,6 milioni gli sfollati interni a causa dei disastri naturali aggravati dalle crisi climatiche-ambientali. Stime future parlano di circa 250 milioni di persone al mondo che saranno costrette a spostamenti interni o transnazionali a causa degli effetti dell’emergenza climatica. Oltre il 40% della popolazione mondiale – circa tre miliardi e mezzo di persone – vive in contesti di estrema vulnerabilità agli shock climatici, con rischi che riguardano gli insediamenti, le infrastrutture, l’economia, il settore sociale e culturale, la sicurezza idrica e la sovranità alimentare, la salute e il benessere degli individui, gli sfollamenti e le migrazioni. Sono dati che ci arrivano dal Report Crisi ambientali e migrazioni forzate: persecuzioni climatiche realizzato da A Sud e Centro di documentazione conflitti ambientali, in collaborazione con Open Arms, organizzazione umanitaria internazionale. Dati incontrovertibili, che sono stati la base di partenza per il convegno Crisi Climatica e migrazioni, organizzato da Assifero.

La migrazione climatica accentua precedenti rischi e minacce

migranti climatici
Il Report realizzato da A Sud e Centro di documentazione conflitti ambientali, in collaborazione con Open Arms

Erika Moranduzzo, co-coordinatrice de Le rotte del clima – progetto finanziato da Fondazione Cariplo e gestito da Systasis Centro Studi per la prevenzione e la gestione dei conflitti ambientali, che mette insieme ricercatori, associazioni per l’ambiente e progetti legati all’accoglienza per dare vita a una ricerca che porterà alla redazione di un report di analisi della protezione legale dei migranti ambientali e climatici, dei limiti del diritto internazionale nel riconoscimento dei rifugiati climatici e ambientali e della valorizzazione delle conoscenze climatiche dei migranti e ricercatrice dell’università di Leeds, Regno Unito, ha posto alcune riflessioni sulla definizione e sulla natura giuridica dei migranti climatici. Già la definizione unisce quelle che venivano considerate due sfide globali ma distinte, il cambiamento climatico e le migrazioni. In realtà le persone non migrano solo per le cause ormai note, come i conflitti, le violenze e le persecuzioni, ma anche per il degradarsi irreversibile degli habitat naturali. E se il cambiamento climatico è il modello principale delle migrazioni, non è avulso dagli altri fattori di migrazione con cui interagisce. La migrazione indotta dal clima è quasi sempre inserita in processo multi-causale: non fa altro che accentuare rischi e minacce precedenti. In condizioni di vulnerabilità il cambiamento climatico non può che portare un peggioramento. Come spiega Moranduzzo, il cambiamento climatico impatta “sproporzionalmente” nel Sud Globale, nelle regioni nel continente africano, in Asia, in Centro America e in America Latina. Non è un caso: sono nell’emisfero sud del mondo, che è già il più caldo e lo diventerà ancora di più, dove si concentrano i paesi in via di sviluppo. L’impatto è “sproporzionale” anche perché questi paesi non partecipano al cambiamento climatico in misura importante, nel senso che non sono, come si può immaginare, grandi produttori di anidride carbonica. E anche perché in quei paesi ci sono gruppi più vulnerabili, che già venivano discriminati ed emarginati – donne, bambini disabili – colpiti più duramente. Il cambiamento climatico, però, genera diversi tipi di migrazioni: le alluvioni e gli uragani, a rapida insorgenza, generano migrazioni di carattere reattivo, cioè movimenti nell’immediato, temporanei e a breve raggio, nei quali ci si sposta di poco per tornare a casa appena possibile; la siccità e la desertificazione, processi a lenta insorgenza, generano migrazioni di carattere preventivo, per cui ci si sposta in anticipo e a lungo raggio.

Non esiste tutela giuridica

Migranti climatici
«Non esiste uno strumento giuridico specifico a tutela di coloro che migrano a causa del cambiamento climatico». Immagine Wikimedia

Ma la vera chiave, come fa notare Erika Moranduzzo, è di natura legale. Prima di tutto, non esiste consenso sulla definizione da usare per identificare coloro che migrano a causa del cambiamento climatico. “Rifugiato climatico” o “migrante climatico” sono definizioni che si usano da tempo, ma non sono acquisite a livello internazionale e, soprattutto non sono categorie giuridiche. E questo vuol dire che non esiste uno strumento giuridico specifico a tutela di coloro che migrano a causa del cambiamento climatico. Per coprire il vuoto legale, ci sono due tipologie di norme: le cosiddette Hard Law, a carattere vincolante per gli Stati, e le Soft Law, strumenti per cui gli Stati operano su base volontaria. «Riguardo le prime, esiste un panorama monco e non adatto. Le leggi, cioè, non sono pensate per chi migra per i cambiamenti climatici, ma per i rifugiati politici». E sono appunto la Convezione sui rifugiati del 1951, e l’International Human Rights. «Nel 2020 l’UNHCR ha dichiarato che alcune norme della Convenzione sui Rifugiati si possono adattare ai migranti climatici, ma occorre un nesso: sappiamo che i cambiamenti climatici daranno vita a conflitti e quindi ci saranno situazioni assimilabili. Tuttavia sembra che questa definizione metta i cambiamenti climatici in secondo piano». In effetti i fattori ambientali e i cambiamenti climatici impattano sui diritti umani, e come tali impongono una serie di obblighi e doveri agli Stati come il principio di non respingimento, secondo il quale non si può deportare il migrante verso il suo paese d’origine se rischia di mettere a rischio la sua situazione dal punto di vista dei diritti umani. Le Soft Law sono su base volontaria: in questo caso si tratta di sperare che gli Stati che hanno aderito abbiano il buon cuore di mantenere poi gli impegni presi, che non hanno, però, carattere vincolante. «Esiste un vuoto giuridico e questo vuoto giuridico si protrae a causa di una mancanza di volontà da parte degli Stati», insiste Moranduzzo. «Se ne parla da cinquant’anni, sono stati proposti vari strumenti di tutela, ma non si è approdati a nulla. E quando queste persone si troveranno a chiedere aiuto si troveranno senza tutela».

Il negazionismo climatico

Il punto è anche un altro per Eleonora Camilli, giornalista di Redattore Sociale. Fino a che ci sarà qualcuno che continuerà a negare i cambiamenti climatici, verranno negati anche lo status e i diritti dei migranti climatici. Sulla stessa linea Giulia Laganà, responsabile del progetto Healthy Food Healthy Planet, Climate Works Foundation, richiamando alla mente i disastri avvenuti di recente in Italia. «È sempre abbastanza sconvolgente vedere che ci sia il negazionismo climatico, che si parli di maltempo e di eventi straordinari. Questi eventi saranno sempre più quotidianità. È questo il punto centrale della questione: i cambiamenti climatici colpiscono tutti, ma soprattutto le persone più vulnerabili. Lo scorso anno sono sono morte 60mila persone in Europa per il caldo eccessivo, è un numero sproporzionato». A morire infatti sono soprattutto le persone anziane, quelle con problemi economici, che magari non possono permettersi l’aria condizionata, e quelli che fanno lavori che richiedono la presenza fisica all’esterno. E anche le donne. Con il clima che cambia ci sono due possibilità. Una è la mitigazione, provare a limitare le emissioni di CO2 nell’atmosfera. L’altra è l’adattamento. In un Paese come il nostro ci sono i fondi per rendere le case più fresche e si crede che si possa legiferare per rendere i lavori all’aria aperta possibili nelle ore meno calde. Ma nei Paesi più poveri tutto questo non è possibile. E le migrazioni per il clima sono inevitabili.

Possibili anche migranti climatici italiani

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Una manifestazione per il clima a Roma

Ma torniamo a quei dati da cui siamo partiti, che, per Giulia Laganà, vanno maneggiati con cautela. «I dati a volte sono usati in maniera strumentale per indurre paura nell’elettorato. È importante rimarcare il fatto che la maggior parte delle persone che si spostano per conflitti e cause climatiche lo fanno per lo più all’interno dei loro Paesi». A coprire distanze più lunghe è chi ha mezzi economici superiori alla media perché i viaggi sono costosi a causa dei trafficanti. Secondo Laganà, però, da qui ai prossimi venti o trent’anni a migrare non saranno solo persone dal Sud al Nord del mondo ma anche all’interno delle regioni europee. E potrebbero esserci anche rifugiati climatici italiani: l’Italia è un Paese che ha molte risorse idriche, eppure si trova in situazioni di stress idrico molto forte. In regioni come la Puglia, in alcune zone, si va verso la desertificazione. Ovviamente le soluzioni ci sarebbero, a partire dagli allevamenti non intensivi, a favore  del ricostituirsi della biodiversità. L’Italia, però, è anche l’unico Paese europeo che non ha una legge sul clima, come spiega Giulia Laganà. Non c’è neanche una strategia per il clima, delle linee programmatiche o dei suggerimenti. È un vuoto che deve essere colmato perché il nostro paese è particolarmente esposto ai fattori climatici. «È importante però, quando si parla di migrazioni in Italia e in Europa, evitare di indurre il panico nell’opinione pubblica. La maggior parte di queste persone non si sposteranno in massa. Parliamo di 85 mila persone in arrivo in Italia quest’anno. Una crisi che dura da vent’anni non è una crisi, non è un fenomeno emergenziale, ma va affrontato in un altro modo. Speriamo che le risposte europee non manchino».

Immagine di copertina A Sud.

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