MULTI. PERCHÉ I NAUFRAGHI DEL MEDITERRANEO NON FANNO PIÙ NOTIZIA?

Perché i naufraghi del Mediterraneo non fanno più notizia? Una profonda riflessione che Annalisa Camilli ha condiviso con il pubblico a Piazza Vittorio, nel corso di Multi

«Non riesco più a leggere queste storie. Lo faccio con una fatica enorme. Ma grazie». È da questo messaggio arrivato dopo la strage di Cutro a Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale esperta di immigrazione e crisi umanitarie, che in lei è nata questa domanda. “Perché i naufraghi del Mediterraneo non fanno più notizia?” Da qui è nata la profonda riflessione che la Camilli ha condiviso con il pubblico a Piazza Vittorio lo scorso 29 settembre nel corso della manifestazione Multi. Viaggio alla scoperta delle culture e delle cotture che ci uniscono. È stato un momento molto intenso, tra confessioni, analisi dei media, filosofia e sociologia, e anche poesia, che proviamo a riportarvi in parte, ben consci di doverlo semplificare. Tutto è nato da quel breve testo. «Un messaggio che mi ha turbato e mi ha acceso un disappunto che è diventata rabbia» racconta Annalisa Camilli. «Il grazie mi innervosiva. Era una delega in bianco e una presa di distanza. Portavo con me l’immagine di quelle decine di bare. Quell’immagine mi aveva ricordato l’immagine dell’hangar di Lampedusa, in occasione della strage del 3 ottobre 2013 (di cui proprio oggi ricorre il decennale, ndr). È stato un dejà vu. Ma anche l’immagine di una sconfitta. Allora avevamo detto: non deve succedere mai più». Ed ecco allora sorgere questa domanda: perché questi morti non suscitano lo stesso scalpore e la stessa vergogna di altri morti? Susan Sontag aveva sperimentato questa sensazione nel 1995, tornando da Sarajevo nella sua città, dove la gente non voleva sentire parlare di un dolore che nessuno potrà mai spiegare. Ricordate? Accadeva anche in Napoli milionaria di Eduardo De Filippo, quando il suo personaggio inizia a parlare della guerra ma nessuno vuole ascoltarlo. È evidentemente un meccanismo umano di rimozione.  C’è una sorta di «insofferenza verso le vittime, che con il loro dolore ci portano a una dimensione di mortalità», come fa notare la giornalista. Ci si può abituare al dolore degli altri? Quali meccanismi psicologici ci tengono distanti fino a ignorarlo?

La strage di Pylos e la criminalizzazione delle vittime

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Annalisa Camilli ha portato il suo punto di vista all’interno di Multi, festival alla sua prima edizione organizzato da Slow Food Roma e Lucy. Sulla cultura, con il supporto – tra gli altri – di CSV Lazio ETS

Un esempio lampante di quello che sta accadendo è la strage che è avvenuta a Pylos, in Grecia, con un peschereccio che si è inabissato in mare con 750 persone a bordo, tra cui 100 bambini. Le richieste di aiuto sono state registrate, una motovedetta costiera greca è arrivata, ha lanciato delle corde per trainarla ma non per soccorrerla, quanto per spingerla lontano dalla salvezza, dalla costa. E proprio per questo motivo è avvenuto l’incidente. Nelle autorità greche è scattato un meccanismo criminalizzazione delle vittime: i migranti sono stati accusati di non voler essere salvati, di aver rifiutato di essere soccorsi, perché erano diretti in Italia. Così, «i morti se la sono andata a cercare, i vivi devono espiare la colpa di essere sopravvissuti», come ci ha spiegato Annalisa Camilli.

Perché il naufragio di Pylos non ha guadagnato neppure una prima pagina?

Ma come siamo arrivati fino a qui? Perché il naufragio di Pylos non ha guadagnato neppure una prima pagina? Le ragioni sono tre, secondo l’analisi della giornalista. E sono da ricercare in un processo di disumanizzazione delle persone straniere che va avanti da almeno vent’anni. E poi nel tempo eccezionale, catastrofico che abbiamo vissuto: la pandemia, la guerra, la crisi migratoria che ha attraversato varie fasi, e anche alla crisi climatica a cui è legata. Infine, la terza causa è l’insufficienza, l’impotenza del linguaggio nel rappresentare il mondo nuovo che è già nato, che è già qui, che abbiamo già davanti e ci ostiniamo a non vedere.

Parliamo da vent’anni di immigrazione senza far parlare gli immigrati

Ma perché avviene questa disumanizzazione delle persone straniere? «Parliamo da vent’anni di immigrazione senza far parlare gli immigrati» ci spiega Annalisa Camilli. «Parlano soprattutto i politici. Non facciamo parlare i protagonisti del viaggio, non facciamo parlare neppure gli esperti, che in Italia ci sono: sono le parole della politica a tenere banco. Noi giornalisti ci riduciamo a fare fact checking dei politici, ci dobbiamo ridurre a verificare le informazioni false, impregnate di teoria del complotto, che fa la politica». È iniziato tutto nel 2001: mentre con il Trattato di Schengen si aprivano le frontiere tra i Paesi europei, contemporaneamente venivano costruiti muri invisibili verso chi non è europeo. Da allora è impossibile per chi non ha avuto un passaporto europeo arrivare in Europa. Ce lo fa notare Annalisa Camilli, perché ormai quasi non ce lo ricordavamo più: negli anni Novanta era possibile, era legale, arrivare in Europa. Sembra impossibile, ma era così. Non si arrivava con le imbarcazioni, ma con un visto di studio, di lavoro, o turistico. Dal 2001 sono anche iniziate le campagne contro gli stranieri. «Da allora abbiamo cominciato a specchiarci nei migranti» riflette la giornalista. «Sono diventati enormi specchi nei quali abbiamo visto le nostre paure. Li abbiamo accusati di essere un pericolo. Quando sono arrivati gli attentati terroristici, li abbiamo accusati di essere i responsabili».

La criminalizzazione della solidarietà

L’ultima ondata di criminalizzazione degli stranieri è iniziata alla fine del 2016, dopo che era stata chiusa la rotta dei Balcani in seguito alla grossa accoglienza nei 2015. Ricordate le persone in arrivo dalla Siria che venivano accolte con i i cartelli “Refugees welcome”? Negli ultimi anni è cominciato a montare il sospetto non solo verso gli stranieri, ma anche verso chi li aiutava, sia nell’ingresso, sia nel primo soggiorno. È avvenuta quella che è stata chiamata la criminalizzazione della solidarietà. «Le procure italiane sono state impegnate in processi, che non hanno portato a nessuna condanna, accusando le Ong di business dell’accoglienza» ricorda Annalisa Camilli. «I soccorritori sono stati chiamati vice scafisti: erano gli angeli del mare, sono stati chiamati i taxi del mare. La legge del soccorso in mare è stata interiorizzata, ma si è riusciti a parlare di porti chiusi. Abbiamo accettato che l’omissione di soccorso. Abbiamo accettato accordi con gruppi militari, che tengono le persone in centri di detenzione. Abbiamo accettato i respingimenti».

L’ideologia delle vittime

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All’ideologia della criminalizzazione è stata contrapposta l’ideologia delle vittime, maggioritaria nel mondo dell’accoglienza. Immagine Osservatorio sulle Migrazioni di Roma e del Lazio

Ma il discorso è complesso. Perché a questa ideologia della criminalizzazione è stata contrapposta un’altra ideologia, quella delle vittime, che è maggioritaria nel mondo dell’accoglienza. «È un’ideologia che tende a catalogare le persone straniere, i migranti, come numeri, come corpi bisognosi, fragili, vulnerabili. Puri corpi» commenta la giornalista. «È una convenzione rassicurante che i migranti siano solo le loro ferite, quella domanda di soccorso che in quel momento, alla frontiera, ci porgono. Il linguaggio noi giornalisti lo mutuiamo dal mondo della politica e del mondo dell’accoglienza. Da una parte carnefici, criminali, autori di reato. Dall’altra vittime. Questo ci impedisce di vedere le persone nella loro unicità, nella loro specificità: questi lessici sono un modo di inferiorizzare gli altri, per considerali un essere umano di serie B».

Ci è mancato un pensiero della catastrofe

E poi c’è il fatto che veniamo da anni di crisi. Ed è l’accumulo di tutte queste crisi ad avere portato questo senso di apatia. «È come se ci fossimo trovati più vulnerabili, più insicuri, non ci siamo dati il tempo di elaborare tutto quello che è successo» riflette Annalisa Camilli. «Ci è mancato un pensiero della catastrofe». Come ci fa notare, catastrofe è un termine che viene dal greco e vuol dire ribaltamento, stravolgimento. «Uno dei primi effetti che la catastrofe ha sull’essere umano è la paralisi del pensiero» continua. «Che può durare poco o tanto. Ma è qualcosa che viene da sotto, per questo le catastrofi sono seguite dal ritorno di paradigmi sociali arcaici». È stato così con la pandemia. Ricordate cosa dicevamo? Ne usciremo migliori. Ci chiedevamo se avrebbe cambiato i nostri paradigmi.  «Eppure questa possibilità di rivedere tutto il sistema si è chiusa rapidamente. La natura non può fare battaglie per noi e ribaltare rapporti di forza se noi questo sforzo politico non lo facciamo» commenta la giornalista.

Immagini che producono assuefazione, anestesia

E poi c’è il rischio dell’emotività di fronte al dolore degli altri. «È come se il male fosse il limite del pensiero, qualcosa di cui ci difendiamo con ogni mezzo, rimuovendolo». Pensiamo alle immagini della guerra in Ucraina: siamo attratti dalle immagini e pretendiamo che ci spieghino, che ci dicano chi sono i responsabili. Ci sono decine di conflitti, decine di frontiere che non vengono rappresentate, non ci sono immagini a trasmetterle. È importante che siano documentate. Ma è come lo facciamo il problema. Nel 2015 le immagini delle persone in arrivo dalla Siria sulla rotta balcanica portarono una grande emozione, così come quelle del naufragio di Lampedusa nel 2013. «Ogni volta la domanda è: quanto durerà questa compassione?» si chiede la giornalista.  «Il ciclo dell’empatia è stato abbastanza breve» è la risposta. «Nel giro di pochi mesi da grande attenzione e compassione si è passati a una reazione più sospettosa, fino all’indifferenza. La foto di Ailan è stata l’apice di quella parabola: l’opinione pubblica si disse scioccata, i leader europei promisero nuove politiche dell’immigrazione ma poi ci fu un calo». C’è stato un passaggio dall’indignazione all’ indifferenza. La prima reazione a foto come quella di Ailan è emotiva, è uno shock. Poi quelle foto raggiungono tutti ed è come se qualcosa si rompesse. Producono il contrario, producono assuefazione, anestesia ci sembra di averle già viste. «Ci sembra che siano false» ragiona la giornalista. «Spuntano le teorie del complotto, quelle che vogliono che i profughi non siano profughi che i bambini trovati sulle spiagge siano bambolotti». A questo si aggiunge il fatto che c’è un meccanismo intrinseco nelle fotografie. «Il sistema si muove nei social network» spiega Annalisa Camilli. «Per cui predilige l’immagine fotografica e quindi predilige immagini sensazionalistiche, scioccanti». Ma sappiamo cosa accade una volta che queste immagini entrano nelle pagine di un social media. «Siamo raggiunti da immagini di bambini soccorsi mentre esploriamo la vita dei nostri amici, la loro quotidianità, le loro feste» spiega la nostra relatrice. «E questo crea una sensazione di distanza, di estraneità da quelle vicende, da quei corpi».

 

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