REFERENDUM 8 E 9 GIUGNO. SIAMO DAVVERO UNA REPUBBLICA FONDATA SUL LAVORO?

Solo 1 italiano su 2 sa che domenica e lunedì c’è un referendum. Eppure prendere posizione l’8 e il 9 giugno è urgente e necessario. La domanda da porsi è: quale Italia vogliamo diventare?

di Giorgio Marota

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Il primo articolo della Costituzione è il motivo per cui, a prescindere dalle posizioni politiche, prendere una posizione sul tema del lavoro dovrebbe essere necessario. Nel referendum anche il non-voto conta, poiché accresce il fronte di chi spera che tutto rimanga così com’è impedendo di raggiungere il quorum del 50%+1; eppure, mai come stavolta, «bisogna scegliere quale idea di futuro abbiamo dell’Italia, una repubblica democratica fondata sul lavoro che il lavoro non lo garantisce, anzi lo rende sempre più precario e pericoloso», ha spiegato Raffaella Bolini, vicepresidente nazionale vicaria di Arci. Ma di cosa trattano i singoli quesiti? E perché, a differenza di quello sulla cittadinanza che riduce da 10 a 5 gli anni per ottenerla, appaiono di così difficile comprensione al popolo chiamato alle urne l’8 e il 9 giugno? Ne abbiamo parlato con Fabrizio Ferraro, professore associato all’Università eCampus, giurista esperto di diritto del lavoro e di diritto della sicurezza sul lavoro.

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Pantaleo: «Unire le generazioni in un’ottica di giustizia sociale». Foto di Paola Springhetti

Scheda verde. Più tutele nei licenziamenti ingiusti

Il quesito numero 1, individuabile con la scheda di colore verde, propone l’abrogazione del contratto a tutele crescenti (introdotto dal Jobs Act) per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015. Se il licenziamento viene giudicato illegittimo, nella maggior parte dei casi si riceve solo un’indennità in denaro calcolata anche in base agli anni di servizio e il reintegro non sempre è previsto. «Il decreto legislativo 23 aveva l’obiettivo di spezzare il vincolo che legava l’articolo 18, anche nella versione post-Fornero, al mondo del lavoro, proponendo un diverso metodo e un altro approccio al tema dei licenziamenti ingiustificati nel senso della prevedibilità e calcolabilità dell’indennità risarcitoria – spiega Ferraro – Ma l’intenzione del legislatore è fallita a causa degli interventi della Corte Costituzionale, rendendo questo decreto, con riferimento alle imprese con più di quindici dipendenti, quasi “un altro 18”, con alcune tutele in meno (ma con una indennità risarcitoria di massimo 36 mensilità invece che 24 e con più tutele in caso di illegittimità del licenziamento per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica o del licenziamento per eccessiva morbilità). Il referendum servirebbe quindi ad abrogare una norma che, oggi, tutela complessivamente poco meno dell’articolo 18». E il reintegro? «Nel vigente articolo 18 lo spazio della reintegrazione è più ampio. La reintegrazione è prevista anche dal decreto 23, quello che si vorrebbe abrogare, ma limitata ai licenziamenti orali, discriminatori, nulli, ai licenziamenti per disabilità sopravvenuta del lavoratore e alle ipotesi di insussistenza del fatto materiale nel licenziamento disciplinare o nel licenziamento per motivo oggettivo». Semplificando: «votando sì tutti i lavoratori delle “grandi imprese” avranno l’articolo 18 nella versione “Fornero”, come modificato dalla Corte Costituzionale. E tutti i lavoratori delle cosiddette “piccole imprese” torneranno ad avere l’articolo 8 della legge 604, quello che prevede l’indennità risarcitoria da un minimo di 2,5 a un massimo di 6 mensilità (che crescono fino a 14 in caso di anzianità più elevate), oggetto del secondo quesito referendario».

Scheda arancione, sul licenziamento illegittimo nelle piccole imprese

Il quesito numero 2 – scheda arancione – propone l’abrogazione del limite massimo all’indennizzo previsto per i lavoratori licenziati in modo illegittimo nelle piccole imprese con 15 o meno dipendenti. Oggi, come detto, la legge stabilisce un tetto di 6 mensilità. «L’abrogazione del decreto legislativo 23, chiesta nel primo quesito, comporterà l’espansione dell’articolo 8, che è oggetto del secondo, a tutti i lavoratori, anche se assunti dopo il 7 marzo 2015». È in gioco il campo di intervento del giudice, che «con il sì potrebbe quantificare discrezionalmente l’indennità risarcitoria senza un massimo prestabilito, pur se sulla base dei criteri di legge preesistenti come l’anzianità lavorativa, le condizioni e il comportamento delle parti, la dimensione dell’impresa o il numero degli occupati». Si vuole quindi aggravare la conseguenza del licenziamento illegittimo ingiustificato, «tutelando maggiormente il lavoratore, ma con il rischio di aprire un nuovo fronte di incertezza per il sistema produttivo e, in particolare, per le imprese di minori dimensioni che più soffrono la competizione nel mercato».

Scheda grigia, limitare la precarietà

Il quesito tre (scheda grigia) propone di abrogare alcuni passaggi di un altro decreto attuativo del Jobs Act, quello sui contratti a tempo determinato. Attualmente, la legge stabilisce che serve una motivazione solo per i contratti a termine che durano più di 12 mesi. Questo significa che, se un contratto non supera l’anno, il datore di lavoro non è obbligato a spiegare perché sta assumendo. «Votando sì, si vuole fare in modo che da subito il datore di lavoro identifichi le ragioni della assunzione temporanea – l’analisi di Ferraro – L’idea è che il contratto a termine sia una forma di flessibilità cattiva e dunque possa essere utilizzato solo se ci sia la “autorizzazione” dei contratti collettivi o una ragione forte come la sostituzione di altri lavoratori. Bisogna però chiedersi se la flessibilità sia sempre negativa, anche alla luce della direttiva europea. Il lavoro a termine è sbagliato quando diventa precarietà; quando, ad esempio, se ne abusa creando con lo stesso lavoratore una successione di rapporti temporanei. Il primo contratto a termine, invece, non dovrebbe essere demonizzato. Del resto, deve essere chiaro che la vittoria del sì al referendum non cambierà la possibilità di essere assunti con contratto a tempo indeterminato».

Scheda rossa, sicurezza nei luoghi di lavoro

Il quesito numero quattro, con la scheda di colore rosso, riguarda la sicurezza nei luoghi di lavoro. Oggi l’azienda appaltante non è sempre corresponsabile degli infortuni subiti dai lavoratori delle aziende appaltatrici. Se vincesse il sì, il committente, cioè chi affida l’appalto, risponderebbe in solido con l’appaltatore e i subappaltatori anche per i danni che sono conseguenza dei rischi specifici di questi ultimi. «Il referendum vorrebbe che sul committente gravasse la responsabilità anche per i danni che sono conseguenza dei rischi specifici dell’appaltatore e del subappaltatore, gli unici che organizzano e dirigono l’attività lavorativa». Se è vero che sul tema può avere certamente più competenza il legislatore ordinario, va altrettanto evidenziato come l’allarme sociale per gli incidenti sul lavoro sia «più che giustificato» anche secondo Ferraro. Che prova a offrire un’altra chiave di lettura: «Bisognerebbe puntare di più sulla cultura della sicurezza e sugli incentivi, ma anche sulle ispezioni e sui controlli, per monitorare dove c’è più rischio».

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Bolini: «Qui non si parla solo di lavoro o di cittadinanza: adesso l’esclusione sociale riguarda anche chi lavora e una quantità gigantesca di giovani»

Ferraro: «Quorum al 30% per rinvigorire un importante strumento di democrazia diretta»

In generale, è un referendum «di ritagli normativi su materie molto tecniche». Ecco perché «tante aree della magistratura, dell’avvocatura e dell’accademia hanno sentito il bisogno di fare un’opera di comunicazione, di informazione, che nei media tradizionali è quasi completamente mancata». Nell’ambito di questo genere di riflessioni, ci si sta anche chiedendo se non vada rivisto, prima o poi, il valore del quorum. «Per rinvigorire questo importante strumento di democrazia diretta, si potrebbe abbassare il quorum, magari al 30%, visto che i dati sull’astensionismo nelle elezioni politiche e amministrative sono sempre più alti e stanno sempre più deresponsabilizzando politica e cittadini. Un quorum più basso, tra l’altro, spingerebbe molte più persone a votare perché anche chi è contrario si recherebbe alle urne», la riflessione dell’esperto.

De Marzo: «Dobbiamo ribellarci alla deriva della democrazia»

Il mondo del terzo settore si sta schierando in modo abbastanza compatto a sostegno dei 5 sì. Giuseppe De Marzo, coordinatore della Rete dei Numeri Pari, non vuole sentir parlare di tecnicismi: «Dobbiamo ribellarci alla deriva della democrazia, allo sfarinamento culturale e al rachitismo morale che colpisce la nostra società», le sue parole. «I quesiti sono chiari», ha aggiunto, «se passano i sì migliorano le condizioni dei lavoratori che sono sfruttati, che sono precari, che non hanno una buonuscita, che sono stati licenziati in modo illegittimo. Ci sono 6 milioni di persone in povertà in questo Paese, negli ultimi dieci anni è triplicato il numero di persone in questa condizione mentre triplicano i miliardari, che sono però 71. Ben 7 italiani su 10 che lavorano sono precari». «Parlare di reintegro, di tempo determinato, di mancanza di causali, di giudici che non possono andare oltre i 6 mesi di indennità per chi viene licenziato ingiustamente, significa restituire dignità», ha detto Domenico Pantaleo di Auser. «Senza dimenticare la sicurezza: tre persone al giorno perdono la vita sul posto di lavoro ed è ora di fare qualcosa». Il motivo per cui un’associazione che si occupa di invecchiamento attivo sia impegnata in prima linea per le tutele sul lavoro è evidente: «Unire le generazioni in un’ottica di giustizia sociale». «Noi abbiamo fatto il possibile in tutti i territori, strappando il velo di silenzio», ha aggiunto Bolini di Arci. «Qui non si parla solo di lavoro o di cittadinanza: adesso l’esclusione sociale riguarda anche chi lavora e una quantità gigantesca di giovani». Eppure se ne parla davvero poco. Solo un italiano su due, secondo gli ultimi sondaggi, sa che c’è domenica e lunedì c’è un referendum.

Immagine di copertina: wikimedia

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