STUPRI ETNICI IN BOSNIA ERZEGOVINA: LE DONNE ASPETTANO GIUSTIZIA

Proiettato a Roma il film "Il segreto di Esma": un'occasione per ricordare un problema che non può essere ignorato

«Non può esserci guarigione, senza aver parlato». Si può ascoltare questa frase nel film “Il segreto di Esma”, di Jasmila Žbanić, vincitore dell’orso d’Oro al festival di Berlino nel 2006. E proprio questa frase potrebbe essere il filo rosso, che unisce la tragedia degli stupri etnici in Bosnia, tra il ‘92 2 il ’95 e quelli che avvengono ogni giorno, in ogni Paese del mondo.

 

LO STUPRO COME ARMA DI GUERRA. Durante la guerra in Bosnia ed Erzegovia, lo stupro fu usato come arma di guerra, in particolare nella parte Est del Paese, dove le forze militari serbo-bosniache e le formazioni paramilitari cetniche di Zeljko Raznjatovic  (Arkan) si scatenarono soprattutto contro le donne musulmane, catturate e ridotte in schiavitù, ma anche contro donne di altre religioni.

Non si sa con certezza il numero degli stupri etnici in Bosnia: si stima che furono tra le 20mila e le 50mila le donne che subirono violenza. Molte poi vennero uccise. Altre si suicidarono. Altre furono liberate in stato di gravidanza avanzata: erano funzionali al disegno di pulizia etnica, messo in atto dai serbo-bosniaci, perché serbi sarebbero stati i figli, secondo la concezione per cui è il padre che trasmette l’identità ai figli,. Anche in questo senso la violenza sessuale era un’arma di guerra – come lo è stata in tante guerre e persecuzioni etniche, antiche e recenti, basti pensare a quella contro i Rohingya in Bangladesh – che serviva per affermare la superiorità di un gruppo su un altro, dell’uomo sulla donna, per spargere paura, dividere le famiglie…

E infatti gli stupratori, durante e anche dopo la guerra, se ne vantavano senza vergogna. La vergogna che, invece, ha impedito a molte di donne di denunciare, di raccontare.

 

“Il segreto di Esma” si ispira a una storia vera.

IL SEGRETO DI ESMA. Il film “Il segreto di Esma” racconta la storia di un una di queste donne e della figlia adolescente, nata dalla violenza. Insieme cercano di affrontare povertà, disoccupazione, solitudine. E tutto è reso più difficile, appunto, dal segreto che la madre non ha voluto rivelare alla figlia, ma che pesa sulla loro relazione e sulla loro vita. Il film è stato proiettato ieri, 16 luglio, a Roma, per iniziativa dell’associazione Bosnia nel Cuore e con il supporto di CSV Lazio. L’obiettivo era sensibilizzare rilanciare un problema che, a distanza di tanti anni, ancora fa soffrire. Perché queste donne non hanno ricevuto riconoscimento, supporto giustizia.

 

LA GIUSTIZIA. Nel 2017 Amnesty International ha pubblicato il rapporto “Abbiamo bisogno di sostegno, non di pietà. L’ultima speranza di giustizia per le sopravvissute agli stupri di guerra”, secondo il quale almeno 20.000 sopravvissute alla violenza sessuale nella guerra della Bosnia ed Erzegovina continuano ad aspettare giustizia.

Secondo Amnesty, dal 2004, quando in Bosnia sono iniziati i processi per i crimini di guerra, neanche l’uno per cento dei casi di violenza sessuale stimati è arrivato in tribunale. E accanto alla non volontà di fare giustizia, c’è stata un’altrettanto evidente non volontà politica di accompagnare e sostenere queste donne, condannate a vite stentate e marginali. La maggior parte di loro vive in povertà, è disoccupata o sottooccupata, non è in grado di pagarsi le cure e non ha un’assicurazione medica che permetta di farlo. Solo 870 (il dato è del 2017), dopo aver avuto il coraggio di denunciare,  sono state riconosciute vittime di guerra e quindi ricevono una minima pensione mensile (260 euro circa). Coloro che  ancora stanno in fase di riconoscimento – perché l’iter burocratico è complesso e chiede di portare molte prove – non ricevono nessun supporto. Intanto fanno ancora i conti con disturbi da stress post-traumatico, ansia, malattie trasmesse sessualmente, ipertensione e insonnia.

E se già per queste donne era difficile denunciare, visto il clima di condanna morale e sociale che avrebbero dovuto affrontare, la giustizia lenta, che spesso si è risolta con assoluzioni dei violentatori, ha ulteriormente scoraggiato dal venire allo scoperto.

 

LA DISCRIMINAZIONE TERRITORIALE. In anni più recenti qualche cosa si è mosso, per fornire servizi e sostegni alle donne sopravvissute, ma in modo frammentario, discontinuo, burocraticamente complicato. La Bosnia è oggi divisa in due entità: la Republika Srpska, a maggioranza Serba, non riconosce queste donne come vittime di crimini di guerra e quindi limita l’accesso alle forme di riparazione e di sostegno: le sopravvissute agli stupri qui non hanno diritto a una pensione, né alle cure mediche e psicologiche gratuite o ai servizi di sostegno sociale. La  Federazione di Bosnia ed Erzegovina ha invece una popolazione costituita prevalentemente da musulmani bosniaci e croati. Qui è necessario ottenere lo status di vittima, attraverso una certificazione rilasciata dall’organizzazione non governativa, Women war victims association, con sede a Sarajevo. È poi possibile ottenere la pensione, di cui sopra, e le cure mediche, se accettano di frequentare i centri che danno supporto psicologico.

 

Bakira Hasecic, fondatrice di Donne Vittime della Guerra

LE ASSOCIAZIONI. Nonostante tutto c’è una società civile che si muove, che si organizza. Ad esempio nel 2003, a Sarajevo, un gruppo di donne ha fondato l’associazione “Zena Zrtva Rata” (Donne vittime della guerra), cercando di coinvolgere le vittime di stupri e torture. La presidente è Bakira Hasecic, che ha una storia terribile: è stata violentata davanti alle figlie, che sono poi state violentate a loro volta davanti alla mamma e al papà. La sua associazione è riuscita a raccogliere circa 5mila testimonianze di donne vittime di stupri etnici in Bosnia e le ha inviate al Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia (TPIJ).

Si chiama invece Zaboravljena Djeca Rata (Figli dimenticati della guerra) l’associazione che riunisce i ragazzi nati dalle violenze (che sarebbero, in Bosnia, tra i 2 mila e i 4 mila secondo le ultime stime). L’hanno fondata una giovane donna, nata dopo uno stupro (e la sua storia è quella raccontata nel film) e un ragazzo abbandonato in ospedale alla nascita e adottato da una coppia di infermieri.

Ma la ferita è ancora aperta e troppe donne sono sole con il loro problema.

 

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