UNA GIOVANE DISABILE IN BIKINI? SE FA SCANDALO, NE ABBIAMO BISOGNO

Laura Coccia pubblica la propria foto in bikini e la rete si scatena nei commenti. Ma bisogna ringraziarla. Intervista con Gaia Peruzzi

«Finché fa scandalo vuol dire che ce n’è bisogno» e le associazioni «spesso osano molto poco». Gaia Peruzzi, ricercatrice di sociologia della comunicazione presso la Sapienza Università di Roma, commenta così la foto di Laura Coccia che ha scosso la rete. La deputata del Pd ed ex atleta paralimpica, affetta da tetraparesi spastica, ha infatti da poco fatto notizia pubblicando su Facebook un proprio scatto, in bikini, con un messaggio rivolto alle giovani: «Non c’è mai nulla di cui vergognarsi nel proprio fisico. Un gesto che ha colpito, ma per Peruzzi, ora, bisogna arrivare alla tv.

La foto in bikini che l'onorevole Coccia ha pubblicato su Facebook
La foto in bikini che l’onorevole Coccia ha pubblicato su Facebook

Come giudica il gesto di Laura Coccia?
«È molto coraggioso e molto utile, perché gli aspetti visivii sono quelli più immediati, che ci arrivano non filtrati. E qui non c’è solo un’immagine, ma un’immagine con un messaggio che scatena una riflessione. Secondo me ce n’è molto bisogno, perché se la comunicazione ha fatto dei progressi nel campo sociale lo ha fatto più in termini di riflessione che di immagini».

Ci spieghi meglio.
«Lo dico in modo provocatorio: le immagini della comunicazione sociale sono pudiche, piene di girotondi, di mani e di fiorellini in circolo. Siamo poco abituati alle immagini forti, che colpiscono. E questo è un problema, perché se tu vuoi far emergere punti di vista nuovi e smuovere l’empatia, la solidarietà e la riflessione verso problemi e categorie, devi anche colpire le persone. E mentre politica e imprese si muovono su immagini forti, il non profit e il campo sociale, in genere, per non essere scandalistici o volgari, osano molto poco.
È vero anche che spesso si ha a che fare con temi delicati, connessi a specifiche tutele o alla stessa volontà dei protagonisti di non esporsi.
Il comunicatore da solo o la singola redazione è difficile che possa osare. Anche perché, quando osi per rompere un’immaginario pubblico, sollevi critiche positive e negative. Non mi aspetterei mai lo facesse una singola associazione, quanto piuttosto una rete importante, che si possa permettere di farlo e spiegarlo con forza, altrimenti rischia di diventare un boomerang».

Facebook è il luogo giusto per questa provocazione?
«Su Facebook ci sono quotidianamente molte persone con disabilità che pubblicano le proprie foto.
Il problema è che rimangono dentro alcuni circuiti interessanti, ma limitati. L’approccio, invece, si cambia quando passi nell’immaginario mainstream, quello dei grandi media. L’immagine che passa in televisione tocca fasce di popolazione che guardano solo quella».

Su alcuni canali televisivi tematici, ci sono programmi di discreto successo che raccontano la vita di persone con disabilità. Si sta muovendo qualcosa?
«Un rischio di voyeurismo e di un effetto morboso c’è. Ma questi programmi, con tutti i pregi o i difetti che possono avere, rimangono di nicchia. Colpisce di più un “Braccialeti rossi”, che passa in prima serata, perché, lì, il ragazzo senza capelli o il ragazzo amputato toccano i bambini, gli adolescenti e le famiglie che sono obbligate a parlarne. Se il bambino malato o una forma di malattia diventa qualcosa di cui si può parlare a tavola, ecco che si rompe lo stereotipo. È qualcosa che ti cambia l’immaginario. Il giorno che non farà più scandalo, vorrà dire che non ce n’è più bisogno».

Sembra assurdo pensare che ce ne sia ancora bisogno, nel 2015.
«Finché fa scandalo vuol dire che ce n’è. Cinquant’anni fa ci scandalizzava un bianco seduto vicino a un nero sullo stesso autobus. Ora che non ci scandalizza più, probabilmente quel problema è passato, ma se ne pongono altri. Finché un’immagine fa scandalo, vuol dire che c’è una parte della popolazione che non è abituata e, se pensiamo che a quello debba essere avvicinata, allora vuol dire che ce n’è bisogno».

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