A SAMOS, L’ISOLA DEI PROFUGHI, DOVE ANCHE GLI EUROPEI SONO STRANIERI

Il racconto di Elizabeth Rijo, italiana in Grecia per fare la traduttrice per un gruppo di profughi, e rimasta "intrappolata" tra Covid e pregiudizi

Questa è una storia fatta di due storie diverse, o meglio di due movimenti diversi della stessa storia, che ci dice come ci si può sentire stranieri in Europa, sia che tu straniero lo sia davvero, sia che tu invece non lo sia per niente. La protagonista è Elizabeth Rijo, italiana di origine dominicana, una laurea in ingegneria a Cagliari, molto impegno nel sociale: è presidente dell’associazione Rosa Roja, vicepresidente del coordinamento Oltre Il Pregiudizio, membro del coordinamento che riunisce le diaspore della Sardegna e tante altre cose.

Straniera in Europa/1

Circa un mese fa, l’11 ottobre, Elizabeth Rijo parte per Samos, l’isola dei profughi raccolti in un grande campo profughi dalla storia travagliata e costellata di denunce per le condizioni pessime di vita, abusi, incendi devastanti eccetera. Deve assistere un gruppo richiedenti asilo, che parlano creolo e per i quali è necessaria la presenza di un traduttore. Naturalmente, appena arrivata ad Atene, Elizabeth fa il tampone come tutti. Il giorno successivo incontra un altro traduttore, anche lui diretto a Samos. Viaggiano insieme, prendono anche lo stesso taxi. «Nel pomeriggio», racconta Esisabeth, «sento bussare alla mia porta, ma non c’è nessuno. Guardo in giro e vedo la porta della sua stanza aperta: lui è dentro e mi dice: “Non ti avvicinare. Mi hanno chiamato dall’aeroporto: sono positivo al Covid 19”. Lui è stato spostato in un’altra struttura, io invece sono rimasta lì ancora due giorni, perché il coordinatore non sapeva darmi indicazioni chiare. Mi mandava i numeri del Ministero della Salute e dovevo arrangiarmi telefonando qua e là, per capire cosa fare».

Samos l'isola dei profughi
Elisabeth Rijo, durante la quarantena a Samos

Dopo due giorni le hanno detto che doveva stare in quarantena e che avrebbero mandato un’ambulanza. «Invece è arrivato un taxi, con il quale sono stata trasferita in una struttura dedicata al Covid, fuori città. Lì – dove tra l’altro ho ritrovato il collega che era risultato positivo – sono rimasta 13 giorni, in isolamento in camera. Ci portavano cibo due volte al giorno (mai pasti caldi) e lo lasciavano fuori dalla porta. Siccome non mi hanno fatto tamponi, ancora non so se ero positiva. Ho anche pagato 230 euro per fare il tampone privatamente e abbreviare la quarantena, perché avevo bisogno di rientrare in Italia. Solo che il medico non è arrivato, quindi ho sprecato i soldi e ho dovuto comunque aspettare la fine della quarantena». Uscita finalmente dalla struttura, Elisabeth non riusciva a trovare biglietti per il rientro, ed è dovuta rimanere fino a fine mese.

Continuando a sentirsi, benché europea, straniera in Europa.

Stranieri in Europa/2

Nel frattempo, però, è iniziata la seconda parte della storia: il servizio che avrebbe dovuto fare nel campo profughi non ha potuto comunque farlo, in quanto il campo è stato chiuso, proprio per il Covid. «Anche se “chiudere” un campo a cielo aperto suona un po’ strano», commenta Elisabeth. «Praticamente prendono delle persone, le buttano lì, e si devono arrangiare con le tende o costruendosi piccole baracche, o quello che riescono. D’inverno è freddo  e non c’è riscaldamento né coperte, d’estate è caldo. E passeggiano più topi che persone. Il cibo è pessimo, tanto che molti cercano qualche cosa fuori dal campo, con i due euro del pocket money o con i soldi che ricevono da casa (perché, paradossalmente, dall’Africa aiutano economicamente i loro cari che sono qui, in Europa). Ho saputo da alcuni di loro che ci sono persone bloccate lì da anni: i più fortunati solo da uno. E sono quasi solo persone di pelle nera: i siriani, che sono bianchi, sono in una struttura. Mi hanno raccontato che il parere positivo della Commissione territoriale, che permette di avere i documenti, arriva ai banchi, mentre le persone di colore – a prescindere da dove vengono, visto che non ci solo africani, ma anche ad esempio haitiani – ottengono al massimo un permesso di tre mesi e non si possono allontanare dall’isola di Samos. Nel campo ci sono donne invecchiate precocemente, dopo l’esperienza del viaggio e quella della reclusione nel campo. E ci sono bambini che non vanno a scuola. Non c’è interazione con la popolazione locale, e non c’è quindi integrazione».

Queste persone sono  in condizione di forte disagio non solo per le condizioni abitative, ma anche perché «sono privati della libertà e subiscono fortissime discriminazioni», spiega Elisabeth. «Mentre ero in quarantena mi ha raggiunto il mio compagno, italiano di colore, che ha vissuto esperienze che ho potuto verificare personalmente, dopo che sono uscita. In alcuni supermercati e in alcuni locali non fanno entrare le persone di carnagione nera. Come ci ha spiegato un poliziotto, la popolazione è convinta che il Covid è arrivato con gli immigrati, ma solo con quelli neri – guarda caso». L’esperienza diretta brucia: «al mio compagno,  mentre camminava per strada, hanno chiesto i documenti. E gli hanno detto. “Non sei italiano, perché non esistono gli italiani neri». Ci sarebbe da ridere, se non fosse tragico.

Non solo il Covid rende stranieri, ma anche il colore della pelle, che sia quella dei profughi o che sia quella degli europei.

L’Europa si muova

Elisabeth sente il bisogno di raccontare queste cose, anche se non può credere che le autorità locali non conoscano questa situazione, e che non la conosca l’Europa. «L’Europa si deve muovere, perché qui i diritti umani sono sistematicamente negati», esclama. Si possono cercare motivazioni, ad esempio negli anni della crisi economica seguiti al 2008, ma non sono giustificazioni: «gli abitanti del posto sopportano la presenza degli stranieri solo perché porta lavoro, ma non sono pronti all’accoglienza. Se uno mi incontrava da sola per strada poteva anche sorridermi, ma se c’erano altre persone presenti, che guardavano, allora si girava dall’altra parte. Alcuni ragazzi armeni ci hanno detto: Samos, l’isola dei profughi, non è la Grecia, non fatevi impressionare».

Ma è difficile non farsi impressionare.

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