LA CULTURA POPOLARE ESISTE E CI FA INCONTRARE GLI ALTRI

La memoria, le radici, la creatività... Sono parte dell'identità che ci aiuta a capire il presente e a non chiuderci. Il ruolo del volontariato

Cultura popolare e volontariato: questa intervista ad Alessandro Portelli è tratta dal n. 2/2015 di VDossier, dedicato al volontariato per la cultura. L’intero numero si può leggere qui.

Quando si dice “volontariato e cultura” si pensa subito all’impegno nell’ambito dei beni culturali. E soprattutto, si entra in uno schema secondo il quale l’impegno culturale è altro rispetto all’impegno sociale, per obiettivi, luoghi coinvolti, temi affrontati. Eppure le distinzioni non sono così rigide, perché non lo è la cultura, che non si può rinchiudere in ambiti ristretti, ma attraversa tutte le dimensioni della vita, anche quella sociale.

Ne abbiamo parlato con Alessandro Portelli: critico musicale, storico e anglista è professore ordinario di letteratura angloamericana all’Università La Sapienza di Roma. L’ultimo libro che ha pubblicato è “Memorie urbane. Musiche migranti in Italia” (Guarandi 2014). Con il Circolo Gianni Bosio ha costituito un enorme archivio di materiali musicali e storici di Roma e del Lazio, grazie ad un lavoro paziente e qualificato di registrazione e archiviazione, fatto interamente da volontari.

C’è un fare cultura anche nel lavorare con chi vive nelle periferie delle città e in quelle metaforiche della nostra società?
«Si tratta di due cose logicamente distinte, ma che poi materialmente si intrecciano. Per esempio tutto il lavoro sulle culture popolari ha una ripercussione, se non altro sul senso della propria presenza storica da parte delle persone intervistate, a cui si riconosce dignità culturale. Se lavoro con i poeti improvvisatori della campagna romana o dell’Abruzzo e contribuisco al fatto che si sentano non solo curiosità locali, ma portatori di un sapere, di una cultura, contribuisco anche al loro senso di presenza storica, di cittadinanza. Lo stesso se faccio un’intervista di storia orale e dedico una parte del mio tempo a persone che nessuno ha mai ascoltato, includendole nella narrazione di una società: è un modo per dare loro dignità e renderle più consapevoli».

 

bosio 3Le è uno dei maggiori teorici della storia orale, ma anche un appassionato “cercatore” di musiche popolari. Esistono ancora culture popolari da salvaguardare?
«Sono 400 anni che si dice che la cultura popolare è sparita, ma continua a riemergere. L’errore è di pensarla immutabile, e quindi non al passo con il tempo. In realtà le culture popolari continuano a trasformarsi, ibridarsi, a che corrompersi, ma comunque a vivere nel corso del tempo».

 

Come dimostra il progetto “Roma Forestiera. Musiche migranti a Roma”, del Circolo Gianni Bosio.
«L’abbiamo chiamato così ricordando una canzone popolare a Roma negli anni Quaranta, che si chiamava appunto “Roma forestiera”, in cui si lamentava la scomparsa della musica nelle strade della città, perché veniva sostituita da quella d’importazione: «Nannarè!/perchè, perchè te sei innammorata/de stà musica americana?/ma perchè te sei scordata che sei romana/e li stornelli nun canti più? c’era ‘na vorta tutto quer che c’era…/ povera Roma nostra forestiera!». È una ricerca sulle musiche degli immigrati a Roma e in altri luoghi. Proprio i “forestieri” hanno riportato la musica nelle strade, ma anche nelle chiese e nei templi, nelle scuole e così via. In questo momento, in una città che sempre più deve fare i conti con la propria trasformazione culturale, la presenza di culture musicali che vengono dalla Romania, dal Senegal o dal Kurdistan è segno di vitalità culturale».

 

Raccogliete questo materiale e poi che uso ne fate?
«Lo schediamo nel sito www.circologiannibosio.it. Abbiamo musiche di comunità provenienti da 28 Paesi diversi. Inoltre cerchiamo di organizzare concerti e performance con questi musicisti, abbiamo pubblicato un paio di cd e stiamo progettato con l’Istituto centrale per i Beni sonori e audiovisivi di continuare questa collana, che chiamiamo “Roma Forestiera”: abbiamo in cantiere un altro disco antologico, con i canti dei migranti accampati sugli scogli di Ventimiglia che cantano “Siamo qui e non ci arrendiamo”. E anche uno, in collaborazione con una università romena, sui romeni a Roma».

 

cultura popolareTutto questo grazie al lavoro volontario?
«Questo è un lavoro che non fai perché ti pagano, ma perché hai un desiderio di conoscenza e relazione. La componente volontaria è cruciale. Nel lavoro sul campo non incontri pezzi di carta, ma persone, e non costruisci un rapporto se non lo desideri veramente».

 

I mass media tendono ad omogeneizzare l’offerta culturale: c’è interesse da parte dei cittadini per il vostro tipo di proposta?
«Sì e no. Se uno si aspetta masse oceaniche, sicuramente no. Se si cercano interlocutori, per esempio lavorando nelle scuole, i riscontri si trovano. Abbiamo avuto anche qualche minimo accenno di consenso da parte delle istituzioni, ma non tale da scalfire la dimensione volontaria. Vediamo spesso un senso di sorpresa da parte delle persone cui si presentano i risultati di questo lavoro: si rendono conto che non ne avevano la minima conoscenza. Scoprono che i cittadini delle borgate, gli immigrati, le mamme dei bambini nelle scuole hanno voci, storie e musiche, grazie alle quali possono parlare per sé, non hanno bisogno che qualcuno parli al loro posto».

 

Moltissime associazioni lavorano sulle tradizioni locali: dalle sagre, alle processioni, alle ricette… Le riscoprono, le valorizzano, cercano di vivificarle, le ripropongono come elemento identitario. Ma a volte anche in chiave difensiva, o almeno un po’ campanilistica.
«Il problema è l’idea stessa di identità. Mi convince poco l’idea del “riscoprire”: significa che sono cose che erano sepolte e che vengono disseppellite. Significa orientarsi al passato, mentre il nostro lavoro è tutto orientato al presente e al futuro, cioè al seguire, attraverso i cambiamenti del mondo popolare, le trasformazioni in corso, non la sopravvivenza del passato. L’altro problema è: che cosa vogliamo riscoprire? Non ho nulla contro le sagre o le processioni, tra l’altro alcune di queste cose sono tutelate dall’Unesco, ma dietro c’è l’idea di fermare il tempo e quindi anche le identità. L’idea che noi riscopriamo le nostre radici per dire a un curdo che sbarca da un Tir ad Ancona: “Tu non sei dei nostri”. Ciò che dobbiamo sviluppare non è tanto il fatto che ci siano determinate fiabe, proverbi o canzoni che vogliamo correttamente conoscere, ma il documentare la capacità delle persone di inventare storie, di comporre canzoni. Non è tanto l’oggetto che ci interessa, quanto il processo. Soggetti di cui si dice sempre che non hanno voce, invece ce l’hanno e con questa voce si rappresentano».

 

cultura popolareAnche il tema della trasmissione della memoria storica rientra in questo campo. A volte sembra che sia tanto corta da non riuscire a coprire un passaggio di generazione.
«Anche quando parliamo di memoria, pensiamo non al suo contenuto, ma al processo. Se facciamo un lavoro sulla memoria della Shoah, ciò che conta è che lo facciamo adesso. L’atto del ricordare è atto del presente: ricordiamo il passato, ma adesso. La memoria come relazione tra il passato e il presente, come attività mentale e anche emozionale. La documentazione – negli archivi e in rete – è storia, e la storia è diversa dalla memoria, perché la memoria fa rivivere nel presente, non è solo ricostruzione del passato. Se noi oggi sappiamo qualcosa sulla Shoah è perché alcune persone, che ci sono passate attraverso, la ricordano e ce la raccontano. Chi racconterà tra 50 anni il mondo di oggi? I quindicenni di oggi. La memoria comincia con un’azione critica e consapevole al presente. Se sono consapevole di quello che mi succede intorno, sarò in grado di raccontarlo. Se mi limito ad attraversare il tempo come fos- si un pacco postale, memoria non ne avrò. La memoria non è una malattia che viene ai vecchi, si comincia a formare nel momento in cui nasciamo e, quindi, va incoraggiata. Quando ai ragazzi, a scuola, spieghiamo che la memo- ria consiste nel sapere cosa successe nel 1944, implicitamente stiamo dicendo loro: “Quello che succede a voi non conta”. In realtà sapere cosa successe nel 1944 aiuta a essere più consapevoli di che cosa sta accade nel 2015. Questo è il senso della memoria come attività culturale nel presente: essere più consapevoli di quello che succede qui e ora».

 

Insomma, il volontariato può avere molti ruoli, nell’ambito della cultura popolare e non solo.
«Sì, e ce n’è uno che spetta a tutti: c’è una dimensione volontaria ineludibile nella cultura, che è quella della fruizione. Non puoi costringere una persona ad andare al cinema, a leggere un libro, visitare una mostra. Puoi portare un cavallo al fiume ma non costringerlo a bere. Però puoi motivare le persone, renderle sensibili, avvicinarle. Questo è un compito che riguarda tutto il volontariato, in qualunque ambito sia impegnato».

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