MIGRANTI FORZATI: SULLE DEFINIZONI CI VUOLE CHIAREZZA, ANCHE GIURIDICA

La narrazione dell'immigrazione e delle migrazioni forzate pretende una correttezza maggiore, bisogna rispettare l’uomo prima del suo status giuridico

«Essere sradicati dalle proprie case». Utilizza questa metafora l’UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees), l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, per descrivere il fenomeno delle migrazioni forzate. Il rifugiato è come un albero che perde le proprie radici, costretto ad abbandonare il terreno nel quale è cresciuto. Lo ha ricordato Andrea Pecoraro, avvocato, esperto in diritto dell’immigrazione e in diritto d’asilo, nell’incontro della Scuola di Mondialità di sabato 11 febbraio, dal titolo “Chiarezza giuridica: rifugiato, clandestino, richiedente asilo, profugo”. La scuola, aperta ai giovani dai 18 ai 30 anni, offre ogni settimana l’opportunità di riflettere sulle dinamiche del mondo, in ottica salesiana e missionaria.

migranti forzati
«Il rifugiato è come un albero che perde le proprie radici, costretto ad abbandonare il terreno nel quale è cresciuto»

Pecoraro lavora dal 2008 con l’UNHCR, all’interno della sezione protezione e nella sua lezione ha chiarito alcuni termini che oggi, anche a causa di un’informazione distratta e superficiale, creano parecchia confusione. “Protezione internazionale” è uno di questi: «È compito primario di qualsiasi Paese garantire la protezione ai propri cittadini. Quando questo non avviene si ricorre alla protezione internazionale, condivisa da tutti i Paesi delle Nazioni Unite che hanno sottoscritto la dichiarazione universale dei diritti umani. È un grande sistema che si sostituisce a uno Stato che discrimina alcune categorie».

Un rifugiato quindi non abbandona la propria terra per scelta, è costretto a fuggire sapendo bene che forse non ritornerà più a casa; è una persona che, secondo la definizione acquisita dalla convenzione di Ginevra del 1951, teme di essere perseguitata per razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, che si trova fuori dal suo Paese e non vuole avvalersi della protezione di questo Paese. Anche il concetto di “irregolarità” pare sempre più relativo: «qualsiasi persona che lascia il proprio Paese per andare in un altro Paese, senza un visto, è irregolare. Ma se dichiara di aver bisogno di protezione internazionale noi dobbiamo accoglierla. Il diritto di richiedere asilo fa parte dei diritti umani e per questo rifiutiamo il concetto di “clandestino”. Preferiamo parlare di persona straniera in posizione irregolare».

I migranti forzati sono 65 milioni. L’Europa ne accoglie solo il 15%

Oggi, nel mondo, c’è il più alto numero di migranti forzati nella storia. Nel 2015 (ultima rilevazione) il numero è arrivato a 65,3 milioni, di cui la metà bambini. Una persona ogni 113 nel pianeta è costretta a lasciare la propria casa. La situazione è drammatica, spiega Pecoraro, considerando che nel 1945 (a fine seconda guerra mondiale) i migranti forzati furono in totale 48 milioni. Migranti forzati sono i rifugiati, ma anche gli sfollati interni, ossia coloro che lasciano la propria casa ma non lasciano il proprio Paese. Gli Stati che “producono” più migranti forzati sono Siria (5 milioni), Afghanistan (2,7) e Somalia (1,1). Contrariamente a quanto si possa credere, l’Europa accoglie solo il 15% di questi 65 milioni: la Turchia, anche in seguito agli accordi tra Erdogan e la comunità internazionale, ne ha attualmente 2,5 milioni, ma superano il milione anche Pakistan, Libano (in cui il rapporto popolazione immigrati è di 1/3) e Iran. Sono i Paesi limitrofi ai luoghi di emigrazione. Perché chi lascia la propria casa, spera, prima o poi, di tornarci.

Come Emmanuel, 16 anni, protagonista di una storia che sembra una fotografia emblematica del conflitto che sta dilaniando il Sud-Sudan. Dopo la dichiarazione d’indipendenza, nel Paese si è scatenata una guerra civile che ha causato più di 500mila rifugiati. I soldati hanno ucciso la madre di Emmanuel e preso il padre, lui è fuggito nella Repubblica Democratica del Congo insieme alle sue 6 sorelle più piccole. Dovrà badare a loro e non può più permettersi di essere un bambino: «Adesso potrei piangere mentre parlo», racconta emozionato con gli occhi pieni di speranza nel video che mostra Pecoraro, «ma sono un uomo».

Alidad: un viaggio lungo 4 anni

Storie come questa ce ne sono tantissime. Basta guardare i video nel canale YouTube dell’UNHCR per rendersene conto. Un’altra storia ci colpisce ed è quella di Alidad, fuggito dall’Afghanistan quando aveva 10 anni dopo aver perso padre, madre e sorella. Il suo viaggio è durato in totale 4 anni e 6000 chilometri. Ha raggiunto l’Italia nascosto sotto un tir, poi nel 2005 è arrivato a Bolzano dove lo ha accolto una nuova famiglia. Con il sostegno dei genitori adottivi Alidad ha proseguito gli studi e ora, a 25 anni, si sta laureando in filosofia politica, ha scritto un libro che racconta la sua storia e collabora nel giornale locale “Alto Adige”. «Non sono un ragazzo coraggioso», racconta. «Sono un ragazzo come gli altri. Ma a differenza degli altri non ho avuto altra scelta».

La scelta noi invece l’abbiamo eccome: «A partire da un’informazione più corretta», ha spiegato l’avvocato, lanciando così un appello agli operatori dell’informazione, «che rispetti l’uomo ancor prima del suo status giuridico. La Carta di Roma, il protocollo deontologico concernente richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti, ha segnato un punto di svolta che dovremmo tutti rispettare, ma assistiamo ancora ad una narrazione dell’immigrazione come un problema da risolvere, piuttosto che una risorsa, anche se ormai sappiamo tutti che il lavoro degli immigrati è fondamentale per le nostre pensioni, per il Pil e più in generale per tutta l’economia. Per non parlare della ricchezza culturale di un Paese sempre più multietnico». Usare una terminologia corretta e un linguaggio appropriato, che dia dignità all’uomo e al tempo stesso rispetti le differenze, è quindi il primo passo per un’informazione davvero etica e consapevole.

In copertina un’immagine da Facebook/Scuolamondialitalazio

 

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