HONBA JEAN BOSCO: LO SPORT DIVENTA UN LAVORO, UN SOGNO CHE SI AVVERA

Honba Jean Bosco, classe 1979, nato in Camerun, dove ha vissuto fino a vent’anni, oggi è uno degli allenatori delle giovanili dei Liberi Nantes, che a Pietralata fanno gioco di squadra per integrazione e inclusione

Ha sempre vissuto di sport e di calcio, fin da bambino. E ora sono finalmente diventati il suo lavoro. È un sogno che si avvera. Ed è davvero una sorta di premio per tutti i sacrifici passati fino a qui. Honba Jean Bosco, classe 1979, nato in Camerun, dove ha vissuto fino a 20 anni, oggi è uno degli allenatori delle giovanili dei Liberi Nantes, la squadra di Pietralata, Roma, nota per essere composta da rifugiati, e per le tante azioni di integrazione e inclusione sociale. Honba Jean Bosco è cresciuto ammirando la generazione dei grandi calciatori del Camerun degli anni Ottanta e Novanta, i Leoni d’Africa, la generazione di Thomas N’Kono e Roger Milla. Ha iniziato a giocare a pallone fin da piccolo. Già a sei anni, Jean non era mai a casa: stare dentro non gli piaceva proprio. E così era sempre fuori, in strada, a giocare, a prendere a calci qualcosa. Non importa cosa: una bottiglia di plastica, una lattina, qualsiasi cosa potesse diventare un pallone. A volte si giocava per strada, a volte su un terreno che non era un campo di calcio ma poteva diveltarlo. Da quando ha iniziato a giocare a calcio, Jean ha sempre, o quasi, fatto il centravanti, la punta. Jean ha sempre dribblato, fornito assist. E ha sempre segnato, tanto. Ma forse la posizione in cui gli piace giocare di più a centrocampo, da regista davanti alla difesa. Gli è sempre piaciuto difendere e fare gioco. Si dice che spesso i giocatori di questo tipo siano già degli allenatori in campo. E il destino di allenatore, allora, era già nel suo destino. Chi gioca a centrocampo, chi recupera palloni e crea il gioco, è qualcuno che pensa agli altri, che li aiuta, che li mette il loro bene davanti al suo. È quello che sta facendo oggi Jean con i tanti ragazzini che allena ogni giorno.

Arrivare in Italia è già una vittoria

Honba Jean Bosco
Già a sei anni, Jean non era mai a casa: era sempre fuori, in strada, a giocare, a prendere a calci qualcosa. Non importa cosa: una bottiglia di plastica, una lattina, qualsiasi cosa potesse diventare un pallone.

Honba Jean Bosco è arrivato in Italia ormai 25 anni fa. Non è arrivato nella maniera drammatica con cui arrivano in tanti dal suo continente. Ma, in ogni caso, per lui non è stato facile. Il suo viaggio in Europa nasce da tante coincidenze. La mamma di Jean cucinava e vendeva nel quartiere il Mbongo Tchobi, un piatto a base di pesce con un condimento piccante. Durante le giornate passate a servire il pesce conosce una signora, lega con lei, e questa le chiede se ha dei figli. La sorella maggiore di Jean, che per lui è sempre stata come una mamma, tramite questa signora riesce ad arrivare in Italia. Jean la raggiungerà presto in Italia. È il 1999. Solo che, solo due anni prima, Jean aveva iniziato a giocare a calcio in Camerun in una categoria importante, con l’occasione di giocare un’amichevole con una squadra di Serie A, in cui aveva segnato 4 gol. Era anche arrivato a giocare la finale di coppa nazionale per salire in Serie A, contro la squadra favorita. La squadra di Jean aveva vinto 1 a 0, con gol su un suo assist. Ma l’arbitro, sul suo referto, aveva scritto di essere stato spintonato, e la partita era persa a tavolino. La corruzione aveva vinto. Quando Jean parte per l’Italia tutti credono che venga qui per giocare a calcio. Invece è una scelta personale, familiare. Il sogno di ogni calciatore è sempre stato quello di arrivare in Europa. Ma arrivare in Italia, per qualsiasi motivo, è una vittoria. Jean arriva a Parigi e poi raggiunge la sua famiglia, in Italia. Oltre alla sorella c’è anche il cugino, Pierre Womé, che allora giocava nella Roma.

Da Viareggio al Savoia 1908: un giro d’Italia del calcio

Honba Jean Bosco inizia così il suo viaggio nel mondo del calcio, lungo l’Italia. Per seguirlo vi servirà una cartina geografica. Inizia a Viareggio, ma non viene tesserato perché non ha il passaporto comunitario. Nel frattempo il permesso di soggiorno scade e Jean diventa clandestino. Prova a  Isola Liri, vicino a Frosinone, poi a Loria, dove fa un provino. Nella partita decisiva, Jean parte in panchina. Il primo tempo finisce 0 a 0. Entra nel secondo, fa un assist, saltando un uomo dalla sinistra, e poi segna un gol. I suoi vincono 2 a 0. Ed è la prima squadra che lo sceglie. Ma non ha i documenti, per cui la soluzione sarebbe sposare una signora anziana della zona. L’altra sarebbe iscriversi a scuola, così avrebbe un visto di sei mesi. Ma serve ancora il transfer internazionale con il Camerun. Per il quale servono dei soldi. Jean è molto richiesto. E inizia un altro giro: Maglie, in Puglia, Paola, in Calabria, con un treno lasciato in corsa, appena arrivato in stazione. E ancora Pisticci e Francavilla in Sinni, Ferrandina, Marconia, Picerno, tutti in Basilicata. E Torre Annunziata, in Campania, nel Savoia 1908. Arrivato vicino ai trent’anni, Jean pensa di lasciare il calcio e di lavorare solamente. Nel frattempo di lavori ne ha fatti tanti: ha fatto l’agricoltore, ha lavorato nel settore siderurgico.

Lo sport come accoglienza

Honba Jean Bosco
Per allenare i bambini serve pazienza, passione, amore da dare. Perché, come dice Jean, se non hai amore da dare non puoi andare avanti

Jean così torna a Roma. Ma non trovare lavoro non è facile. Torna a giocare a calcio, a Tor Bella Monaca. Un amico lo mette in contatto con il centro d’accoglienza, e Jean comincia a lavorare come operatore sociale e mediatore culturale. Si occupa di sport come accoglienza.  Il lavoro va bene, ma la voglia di giocare a calcio non passa. A Pomezia ritrova un vecchio procuratore che lo aveva aiutato, che ora fa il direttore sportivo. Fa un provino, ma la squadra non ha soldi. E ritorna a Tor Bella Monaca. Gioca ancora, a Civita Castellana, in provincia di Viterbo. Sono gli ultimi due anni. E con il calcio giocato chiude davvero. Angela, un’amica, lo avvicina a un centro di accoglienza e gli chiede se gli piacerebbe andare a giocare qualche partita con i Liberi Nantes. Quel nome, Jean, lo conosceva già. Mandava spesso a giocare in quella squadra alcuni dei ragazzi dal centro di accoglienza. È il 2020. Jean arriva qui. Comincia a fare l’allenatore in seconda, poi rimane a fare l’allenatore della prima squadra. Grazie alla collaborazione di Liberi Nantes con altre realtà arrivano altri progetti, come Allenare nelle comunità. E così inizia a lavorare, prima da un’altra parte, con le giovanili, e poi qui, a Liberi Nantes. È il 2021.

Per allenare i bambini serve pazienza, passione, amore

A Liberi Nantes Jean ha trovato il suo lavoro ideale. Gli piace continuare a respirare calcio tutto il giorno, gli piace insegnare quello che conosce bene. Più allena, più si diverte. Ha iniziato ad amare questo lavoro allenando i grandi. Poi ha scoperto i più piccoli. Che gli piacciono ancora di più, perché, come dice lui, oltre a imparare hanno tanto da insegnare. Ognuno di loro arriva con la sua identità, il suo stile, il suo modo di comportarsi. E così più allena, più Jean impara. Lui che non ha avuto le stesse loro possibilità da piccolo, che un allenatore così lo avrebbe voluto, un po’ si rivede in loro. Per allenare i bambini serve pazienza, passione, amore da dare. Perché, come dice Jean, se non hai amore da dare non puoi andare avanti. Serve lasciare liberi i ragazzi. Perché se magari dici ai bambini di palleggiare, e uno di loro fa altre cose, quelle cose possono essere interessanti. E allora devi lasciargliele fare, per capire cosa è in grado di fare. Jean insegna anche educazione fisica nelle scuole. Lo sport è davvero diventato il suo lavoro.

Giocare insieme è già vincere

Honba Jean Bosco parla tanto con i ragazzi, della partita, e di altro. Se deve parlare della partita non è un allenatore che grida. Preferisce sempre un sorriso. Quando giocava, per giocare bene gli serviva essere tranquillo. E oggi questa cosa la ricorda. Anche se durante l’allenamento richiama qualcuno, fa sempre capire che quello non è un ordine. Il calcio non è un lavoro, è un gioco. I bambini che allena sono appassionati, sanno già molto di calcio, e ci tengono a fare bene, anche in allenamento, nella partitella tra di loro. Se perdono si arrabbiano, simpaticamente, anche in quelle occasioni. Ma devono sempre poter avere la sicurezza in se stessi e quella di poter chiedere quello di cui hanno bisogno. Come ci ricorda Jean, ai bambini si fa capire che giocare insieme è già vincere.

 

 

HONBA JEAN BOSCO: LO SPORT DIVENTA UN LAVORO, UN SOGNO CHE SI AVVERA

HONBA JEAN BOSCO: LO SPORT DIVENTA UN LAVORO, UN SOGNO CHE SI AVVERA