“STAI ZITTA”. COME È FACILE MORTIFICARE COL LINGUAGGIO

Se si arrabbia un uomo, sa farsi rispettare; se si arrabbia una donna, è isterica. Intervista con Michela Murgia sui luoghi comuni del linguaggio e non

Da “Stai zitta” a “Brava e pure mamma!”, da “Ormai siete dappertutto” a “Spaventi gli uomini”. Sono alcuni dei titoli dei capitoli dell’ultimo libro di Michela Murgia “Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più” (Einaudi 2021), un prezioso strumento che evidenzia il legame mortificante che esiste tra le ingiustizie che viviamo e le parole che sentiamo.

Nel suo libro scrive: “di tutte le cose che possiamo fare nel mondo come donne, parlare e farlo in modo problematico è ancora considerata la più sovversiva”.
«A giudicare dalle reazioni che scatena è senz’altro vero. Tutte le volte che una donna prende parola pubblica per esprimere dissenso, suscita una reazione, collettiva e personale. Le shitstorm sono all’ordine del giorno per chi si espone: è sufficiente esprimere un’opinione politica o su un argomento particolarmente controverso e si ricevono centinaia di attacchi. Parlo per esperienza, ma non sono l’unica ad avere provato quest’elettrizzante risposta collettiva in cui criticano il corpo, dicono che sei un’incompetente, che dovresti stare zitta in generale. Questo può capitare anche nel rapporto uno a uno. Il titolo del libro prende le mosse da un episodio che mi è accaduto ad agosto scorso, mentre intervistavo lo psichiatra Raffaele Morelli. Stava facendo alcune affermazioni, dicendo che i bambini maschi spontaneamente giocherebbero con i camion e le bambine femmine spontaneamente giocherebbero con le bambole: l’ho contraddetto, dicendo che è così perché diamo loro quei giochi diversificati e lui mi ha detto “stai zitta”. Invece che argomentare ha cercato di ammutolirmi. Naturalmente io zitta non sono rimasta, ma è interessante notare il fatto che probabilmente molte donne, attaccate in questo modo, poi zitte ci rimangono davvero. Di quante donne stiamo perdendo la voce e la parola perché esiste questo tipo di reazione? A chi dà fastidio una donna che parla?»

Tutte le mamme e i papà sanno, che i bambini fanno quello che vedono fare ai grandi. Come si possono “abituare” sin da piccolissimi a collaborare e a dividersi i compiti in casa?
«Di recente leggevo una ricerca molto interessante sui bambini delle scuole medie, che tendevano a normalizzare molto di più il fatto che una donna lavorasse, paritariamente all’uomo, se erano figli di donne che lavoravano, mentre se erano figli di casalinghe tendevano a considerarlo più strano o comunque non prioritario. Più vedi normalità tra i ruoli, più la normalizzi; più dislivello percepisci, più quel dislivello diventa la tua normalità».

Spesso si applica alle donne l’etichetta di “rabbiosa”, come se a una donna non fosse permesso provare rabbia.
«La soglia della rabbia per le donne è molto più bassa di quella per gli uomini. Un uomo che alza la voce è un uomo che si fa rispettare, una donna che alza la voce è una donna rabbiosa. Se la donna smette anche solo di sorridere, mentre dice quello che vuole dire, immediatamente viene percepita come aggressiva. A nessun uomo, quando ha dieci anni, viene detto “sorridi che sei più carina”, cioè che il sorriso deve accompagnare sempre la tua opinione. Alle donne si chiede di essere molto decorative quando esprimono qualcosa, nel momento in cui smettono di essere piacevoli da guardare o da sentire diventano intollerabili, non c’è una via di mezzo. Questa è una delle più sottili manipolazioni del maschilismo. La prima cosa che dicono è “calmati, devi stare molto calma”. Io sono calma, il fatto che io esprima dissenso ti dà l’impressione che non sia calma? Per quale ragione tu percepisci la mia calma nel dissenso come un’aggressione? Perché nella tua testa un uomo che esprime dissenso è normalizzato, una donna che esprime dissenso è un’anomalia da cui ti devi difendere».

“L’ossessione della mammizzazione delle donne che arrivano all’apice è parossistica nei media italiani”. La domanda sulla conciliazione tra lavoro e famiglia è un must di ogni intervista alla donna di successo.
«In uno dei suoi articoli satirici, di recente Lercio ha scritto: “Giornalista intervista una scienziata e si dimentica di chiederle se è mamma”. La domanda è molto semplice: “se stessi intervistando un uomo, lo scriveresti che è padre?”. Se non lo scriveresti, non lo scrivere neanche per una donna. Non è difficile, non è questione di volerti mettere dei limiti nell’espressione della libertà professionale, è questione che se tu ritieni che per una donna quella sia una specifica necessaria, crei un problema di pregiudizio. Quando leggeremo che Luca Parmitano è AstroPapà andrà bene, allora potrai chiamare anche AstroMamma Samantha Cristoforetti. Però se scrivi “AstroSamantha e Luca Parmitano vengono premiati” spiegami: perché per lei metti il nickname (spesso AstroMamma) e a lui nome e cognome e qualche volta addirittura il titolo militare?»

“Non ci serve la corona: dottoressa è sufficiente, grazie”. Perché le qualifiche delle donne spesso vengono “dimenticate”, privilegiando il nome di battesimo?
«Credo che un buon esempio di questo tipo di discriminazione lo si possa riscontrare in ambito razziale. Mi è capitato molte volte di assistere a scene in cui, in qualche fila al supermercato, in farmacia o sull’autobus, la cassiera o il controllore o il farmacista si rivolgesse a me, persona bianca quindi presumibilmente italiana, con il lei, e a una persona nera dandole del tu. Io l’ho fatto sempre notare. Quella è un’espressione di razzismo: nella tua testa i bianchi meritano il lei e ai neri puoi dare del tu. La stessa cosa succede con le donne: agli uomini devi dare del lei e del dottore, alle donne puoi dare del tu e chiamarle con il nome proprio. Il meccanismo è assolutamente identico. Io uso nei tuoi confronti un registro di linguaggio più familiare e meno prestigioso perché nella mia testa non ti considero paritario. È molto difficile da far capire questo perché chi la applica spesso non ne è consapevole, chi la subisce invece capisce perfettamente che ti stanno dicendo “vali un po’ meno”».

proposte femministeUna formazione specifica per combattere gli stereotipi di genere, sin dagli asili nido, potrebbe essere un buon inizio?
«Lo sarebbe sicuramente, il problema è rendere questa formazione curriculare, perché ci possono essere un direttore o una direttrice didattica, un dirigente di un plesso che hanno questo tipo di sensibilità e consentono di fare dei progetti speciali, inseriti nel piano formativo a inizio anno e approvati dalle famiglie. Ma ci sono dirigenti che non hanno minimamente questa sensibilità, per cui entrare in certe scuole è difficilissimo. O, ancora, ci sono altre situazioni in cui il dirigente deve affrontare forme di organizzazioni genitoriali conservatrici, tradizionaliste o persone politicizzate, che vengono dal mondo di Pillon, dal mondo della Lega e di Fratelli d’Italia. Queste realtà hanno un grande controllo sui piani formativi, per evitare che passi una linea educativa anche solo minimamente mirata a combattere gli stereotipi di genere, perché esiste una parte politica che sulla famiglia tradizionale fonda tutta la sua ideologia. Naturalmente “Dio, patria, famiglia” è un portato fascista».

Nel terzo settore, le volontarie sono più dei volontari (ne abbiamo parlato qui), ma resta il problema dei ruoli di responsabilità ancora soprattutto maschili.
«Il mondo della solidarietà risponde alle stesse dinamiche di tutti gli altri ambiti. Il problema che abbiamo in Italia è di definizione delle caratteristiche di leadership: a qualunque livello, secondo il nostro pregiudizio, chi comanda deve esprimere autorevolezza, capacità di coordinamento anche forte, una certa competitività, un modo di gestire i conflitti che è muscolare. Queste qualità noi le attribuiamo ai maschi, non alle femmine. Mentre alle donne attribuiamo capacità di mediazione e risoluzione del conflitto, grande capacità di servizio, quindi oblatività, generosità nel darsi, nell’essere presente e tutta una serie di caratteristiche che sono emotive, in realtà, come l’indulgenza e la capacità di ascolto. Tutte queste caratteristiche vengono considerate femminili, come se gli uomini non sapessero ascoltare o non fossero comprensivi quanto le donne. Allo stesso tempo, le donne vengono percepite come fragili, nei luoghi in cui bisogna prendersi alte responsabilità, proprio perché se la loro forza è l’emotività, chi vorrebbe un emotivo a capo di un’associazione? È un problema, questo, perché gli stereotipi di genere si riproducono identici in tutti gli ambiti».

 

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