FABIO BONIFACCI: LA COMMEDIA CHE FA RIDERE E PENSARE

"Loro chi?” è il primo film da regista di Fabio Bonifacci, che ha scelto la commedia sociale perchè nella vita ha conosciuto più volontari che yuppy

di Maurizio Ermisino

locandina loro chi_UFF 100x140_LC_UM_low«Si può fare!» esclamava Claudio Bisio, ex sindacalista a capo di un gruppo di disabili mentali che volevano fare un lavoro vero. È qualcosa che diciamo anche noi. Oltre a “Si può fare”, di recente al cinema abbiamo visto la storia di un’amicizia tra un imprenditore nostrano e un muratore egiziano (“Lezioni di cioccolato”), quella di un omosessuale invaghito di una donna (“Diverso da chi?”) e quella di un uomo qualunque che riporta la gente ad avere fiducia nella politica e nelle istituzioni (“Benvenuto presidente”). Abbiamo riso, ma soprattutto abbiamo pensato. Questi film hanno una cosa in comune: sono stati scritti da Fabio Bonifacci, uno sceneggiatore che, come pochi altri, è riuscito a portare temi sociali in un genere, la commedia, che di solito fa spegnere il cervello. Ora è arrivato nelle sale “Loro chi?” il suo primo film da regista (diretto insieme a Francesco Miccichè), sorprendente storia di truffe e truffatori. Ridere e pensare si può. «Non ho mai deciso di fare commedie sociali, mi è venuto a istinto», ci ha raccontato Bonifacci. «La commedia non è mai stata una scelta, era il mio linguaggio, il mio modo di vedere il mondo. E ho scelto temi sociali perché volevo raccontare la realtà che vedevo coi miei occhi, non quella dei media. Negli anni 80 leggevo che stavamo diventando tutti yuppy. Solo che io ne avevo conosciuto uno solo, per di più scarso, quasi una macchietta. Nella vita reale conoscevo più volontari che yuppy, più problemi che carriere, più difficoltà che successo. Così decisi di non fidarmi troppo dei media e di guardare coi miei occhi. Ho visto molto “sociale” perché, semplicemente, c’è: non è un recinto con strane creature, è la società. Avere problemi è la condizione umana più universale, riguarda tutti, ognuno l’ha provata e sa che gli toccherà di nuovo, dannazione. Chi ha problemi ci assomiglia, vive nel cuore di una fragilità che tutti abbiamo e temiamo, per questo la sua storia è interessante. Il sociale per me non è mai stato un modo per parlare di “loro”, ma per parlare di “noi” ».

La truffa è stata al centro di molti film americani, e anche di qualche storica opera italiana. Ma come è la via italiana alla truffa? Siamo predisposti?
« Bè, la cronaca italiana pullula di truffe. Ma in genere, oltre al peccato del crimine, hanno quello della noia: sono truffe fatte di carta, burocrazia, cavilli aggirati, scambi di favori. Non mi sono ispirato a questo. A me affascinava piuttosto la “truffa letteraria”, quella in cui il ladro ottiene i suoi scopi creando un mondo, lavorando con la psicologia, mettendo in scena la realizzazione dei desideri e dei sogni della vittima. Questo genere di truffa, che nella realtà sempre più rara, mi pare abbia qualcosa in comune con la creazione artistica. Per questo mi ha sempre affascinato».

Com’è l’umanità che popola il paese dove si svolge il film? Quanto corrisponde alla gente che vede tutti i giorni?
«Il film percorre quasi tutta l’Italia, abbiamo girato a Trento, Roma, Sabaudia, Trani, il Salento. L’umanità che si muove nel film è molto varia, come nella realtà. Un tratto in comune è forse la tendenza a farsi abbindolare con una certa facilità da chi te la sa raccontare bene. E questo sì, credo sia un dato che si trova anche nella vita reale, e non solo nel ramo truffe »

L’inizio del film è anche un viaggio nel mondo del lavoro. Da osservatore attento, che dinamiche ha studiato e analizzato?
«Da giovane facevo uffici stampa per aziende. Ho lavorato in varie realtà diverse, grandi e piccole. Il mondo della produzione mi ha sempre incuriosito molto, è una parte fondamentale della realtà che spesso si racconta poco. L’azienda raccontata all’inizio del film nasce anche da cose che ho visto coi miei occhi durante quelle quelle esperienze, sia pure filtrate dal linguaggio del cinema e della commedia».

Con commedie come queste si arriva a più persone, o rimangono su numeri limitati rispetto ai film di cassetta?
«Con mio sommo dispiacere, in Italia gli incassi della cosiddetta commedia sociale non hanno mai raggiunto le vette dei film comici. Non c’è mai stato un fenomeno come “Quasi amici”, che con un personaggio tetraplegico è diventato il secondo incasso di sempre in Francia. Forse siamo meno bravi noi autori. Ma credo ci sia anche una differenza di gusti nel pubblico. Io ho da anni nel cassetto una commedia su tre ragazzi con la distrofia muscolare che stanno in carrozzella, è una storia solare e positiva. Ma i produttori hanno temuto che il pubblico italiano non sarebbe andato a vedere un film così. E forse la loro paura non è campata per aria, purtroppo».

Ma in Italia si possono ancora fare film che facciano ridere e pensare?
«Ci si prova, ma mi pare che adesso non sia il prodotto più richiesto dal mercato. Secondo alcuni il pubblico italiano di oggi anziché ridere e pensare preferisce ridere e basta. È una cosa tipica dei periodi di crisi. In America tra il ‘29 e il ‘31 i locali di cabaret erano tra le poche attività che funzionavano».

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L’autore e regista Fabio Bonifacci

Qual è stata la chiave per parlare di integrazione nei due “Lezioni di cioccolato”?
«Mio nonno. Ho parlato con vari migranti egiziani, venivano tutti da una zona rurale. E ho scoperto incredibili somiglianze tra il loro modo di pensare e quello dei miei nonni contadini. La concezione del matrimonio, il rapporto col lavoro e col risparmio, il senso dell’onore e della parola data, la percezione di una forte comunità familiare, le idee sul sesso, sul numero dei figli, sulla figura femminile. Forse il mondo della terra crea attorno a sé una cultura simile in tutto il mondo. Trovata questa chiave, è stato facile: Kamal è mio nonno da giovane, la zia che scorta i fidanzati è quella che seguiva mio padre e mia madre da ragazzi, la donna col velo somiglia a mia nonna, che non si è mai sciolta i capelli in pubblico perché era una cosa sensuale, si faceva solo col marito. Le idee di Kamal su come si deve comportare una figlia sono le prediche che sentivo fare dalle nonne a mia cugina. Con mia enorme sorpresa la chiave per capire gli egiziani l’ho trovata in casa mia. E’ un esempio di come le “differenze” non siano così estreme, siamo noi che le disegniamo così».

“Si può fare” è il simbolo del suo stile. Divertente, ma intenso e commovente…
«Col regista Giulio Manfredonia abbiamo frequentato centri di igiene mentale. Ci chiedevamo come ci si relaziona con persone malate di schizofrenia, psicosi, autismo. La risposta era netta: come con gli altri. A volte va meglio, a volte peggio, ma è così anche al bar o in ufficio. Credo che la distanza tra una “persona normale” e un “caso sociale” sia spesso inferiore a quanto si pensi. E con la malattia mentale la distanza si riduce ancora, in certi momenti della vita basta un passo in più o in meno per trovarsi di qua o di là. Il “matto” parla di noi, del mistero del nostro cervello: i greci dicevano che il folle è stato toccato dagli Dei, nelle nostre campagne il “matto del villaggio” era rispettato e accettato.
Però quando ho avuto la prima idea non volevo parlare di malattia mentale. La cosa che mi aveva colpito era un’altra. Inizio anni 80, in una cooperativa di persone con disturbi mentali arriva un sindacalista che viene dalla fabbrica, non sa nulla di malattia mentale e tratta i “matti” nell’unico modo che conosce: come lavoratori. Li sgrida quando sbagliano, discute come migliorare le prestazioni. In un certo senso è miope, non vede la malattia mentale. E accade un miracolo: i “matti” smettono di vedersi solo come tali, cominciano a vedersi un po’ anche come lavoratori, e piano piano riescono a diventarlo. Questo volevo raccontare, il pazzesco “potere dello sguardo”. Il modo in cui vediamo gli altri non è una descrizione, è una costruzione: contribuisce a rendere gli altri ciò che sono, a spingerli in una direzione o un’altra. E’ un concetto per me rivoluzionario, che però non ha nulla di strettamente “sociale”, si può applicare in casa, in ufficio, al bar. La prova che parlare di sociale vuol dire parlare di noi e non di “loro”».

“Diverso da chi?” è stato uno di quei film di cui si è parlato anche “fuori” dai media di cinema…
«L’idea è nata una sera all’aperitivo: un gay diventa simbolo del movimento omossessuale, viene acclamato nelle piazze come bandiera gay ma a quel punto si innamora di una donna, e deve portare avanti in segreto una relazione “trasgressiva” e “diversa” di tipo eterosessuale. Questo capovolgimento mi piaceva da pazzi, mi sembrava spazzasse via con una risata mille pregiudizi sulla diversità. Mi è stato utile parlare con alcuni gay: Grillini mi ha fatto notare che la “conversione” a etero era poco credibile perché nella realtà è rara, e poi ai gay può suonare sgradevole, perché richiama certe teorie “rieducative”. Così ho cambiato l’idea originale: il personaggio non diventa etero, solo che s’è innamorato anche di una donna. Mi sono divertito a fare un po’ di satira politica, del resto il PD dell’epoca si prestava bene».

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“Loro chi?” Una foto di scena

“Benvenuto presidente” ha intercettato un sentimento comune, la voglia di una politica migliore…
«L’idea è del produttore Nicola Giuliano. L’aver intercettato in tempo reale quel crescente sentimento di rabbia verso la politica che sarebbe sfociato nel successo di Grillo credo sia farina del mio sacco. Per fare meglio il mio mestiere, anziché andare a Roma, sono rimasto in provincia, e in periferia. Sto nella realtà, quella che i politici non frequentano. E da lì capisco prima quando succedono le cose. Il primo segnale fu nella palestra del quartiere: culturisti che avevano sempre parlato di calcio e donne all’improvviso inveivano contro i politici. Al bar anziani democristiani prudentissimi insultavano la casta, in posta pensionate in fila parevano editorialisti di testate estremistiche. Ho capito che la rabbia stava tracimando dal ristretto “club degli indignati” per diffondersi in ampi strati popolari. E questo ho cercato di raccontare, in tempo reale, mentre succedeva. Per fortuna avevo un bravo produttore che ha realizzato subito il film».

Come siete riusciti a parlare di disabilità in un film di Natale, “Indovina chi viene a Natale”?
«L’idea è di Brizzi e Martani. Io credo di aver contribuito spingendo con una cerca insistenza raccontare il personaggio in modo reale, incontrando persone che avevano lo stesso problema, inserendo nelle scene la fisicità del disabile senza aver paura di mettere certe cose in un film di Natale: affrontando tutto con una certa dose di verità. Poi Raul Bova ha fatto il resto. Ha rifiutato la controfigura, ha voluto imparare lui a fare tutte le cose che si vedono nel film. Diceva che gli sembrava più rispettoso verso chi ha davvero quei problemi. L’ho molto stimato».

Quando scrive parte da un tema che sente urgente o su una storia che le chiedono cerca di inserire un messaggio?
«A me vengono tante idee, la maggior parte le butto. Però è come quando ci si innamora: ogni tanto senti che una è giusta, sai che se ti metti a scavare lì, troverai qualcosa. Il tema del film è quello che viene fuori scavando, quasi sempre lo scopro solo alla fine. Che in “Si può fare” volessi raccontare “il potere dello sguardo”, l’ho capito la sera prima della conferenza stampa. In un istante mi è parso chiaro che, da quando 6 anni prima avevo avuto l’idea iniziale, volevo dire quella cosa lì. È una delle cose più belle del mio lavoro: quando scopri cosa volevi dire, e magari anche perché».

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