VIOLENZA SULLE DONNE: ECCO PERCHÈ LE PAROLE DELL’INFORMAZIONE FANNO MALE

Quando si parla di femminicidi, spesso si finisce con il colpevolizzare la vittima. Bisogna cambiare il linguaggio, anche quello quotidiano

di Ilaria Dioguardi

La narrazione di recenti casi di femminicidi ha evidenziato un’emergenza: i media
continuano a veicolare e rinforzare vecchi e pericolosi stereotipi, ma «è dalla parte di lei
che bisogna imparare a stare».  «Il nostro è un Paese che vive e legifera sulle emergenze, ma quella che viviamo non è una  “bolla”, ha radici culturali profonde», dice Silvia Garambois, vice presidente dell’associazione GIULIA, un bel nome di donna come acronimo di “Giornaliste Unite,  Libere e Autonome”.

 

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La campagna dell’Auser contro i femminicidi

Perché la violenza contro le donne è un fenomeno  strutturale?
Nel secolo passato, in cui tante di noi sono nate, persino le leggi e i tribunali consideravano validi lo “ius corrigendi”, per cui potevi ammazzare la moglie di botte; il “matrimonio riparatore”, con cui restituivi l’onore alla famiglia della ragazza stuprata sposandola (che lei lo volesse o no); fino al “delitto d’onore”, se sorprendevi la moglie in “illegittima relazione carnale”. Ci siamo liberate di queste leggi solo all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, ma quella è la cultura con cui sono state educate generazioni e generazioni.
Troppo spesso nei giornali, quando si parla di femminicidi,  si rischia la “vittimizzazione secondaria”.

Può spiegare cos’è?
Faccio un esempio. Se si pubblica un titolo come «È riuscita a distruggermi la vita. Ha vinto lei» – apparso qualche tempo fa sulla “Provincia di Pavese” – quando si racconta di un assassino che ha ucciso la moglie, come giornaliste e giornalisti ci ergiamo a giudici, troviamo le attenuanti, condanniamo lei. Rovesciamo la realtà, facendo della vittima il carnefice e del carnefice la vittima. Purtroppo titoli (e articoli) così appaiono in tutta la stampa nazionale. È certo grave e gravissimo di fronte aI femminicidi, ma è ancora peggio quando si racconta di altre violenze, per cui la donna, oltre che della violenza subita dal proprio compagno, diventa vittima anche dei media.

 

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La Campagna dell’associazione ARPA

Dal “raptus di follia” all'”amava troppo”, dal “dramma della gelosia” al “voleva lasciarmi e l’ho uccisa”. I media suI femminicidi continuano a veicolare e rinforzare vecchi e pericolosi stereotipi. Il primo passo per sconfiggerli è riconoscere che esistono ancora…
Abbiamo avuto la conferma, che con i corsi di formazione si può fare molto in questo senso, perché gli stereotipi sono spesso soprattutto una forma di pigrizia: avendo occasione di ragionare e discutere con colleghe e colleghi, il problema diventa evidente. Così come nella scrittura di un articolo si cerca di rifuggire dai luoghi comuni, tanto più parlando di violenza è importante non lasciarsi trascinare da formulette stereotipate che, alla prova dei fatti, non corrispondono alla realtà.

Gli altri passi che le giornaliste ed i giornalisti possono fare per contrastare (e non amplificare) le “attenuanti”, i luoghi comuni?
Uno, fondamentale, è piantarla di raccontare “dalla parte di lui”: è un modo giustificazionista, alla ricerca di motivazioni spesso assolutamente indifferenti per la legge e i magistrati, ma che fanno colpo sui lettori (“lei voleva lasciarlo”, “lei era indifferente al suo corteggiamento”). È “dalla parte di lei” che bisogna imparare a stare, per raccontare davvero non solo un episodio di cronaca – purtroppo tremendo – ma anche la realtà che ci circonda.

Cosa può fare ognuno di noi, nella vita di tutti i giorni, nel linguaggio che usa, per dare vita alla crescita culturale e sociale nel nostro paese, ad un linguaggio sempre più attento alla dignità della donna?
Usare un linguaggio non sessista sarebbe già un bel passo avanti! Una ministra è una ministra e un’assessora un’assessora. Dobbiamo imparare che la nostra dottoressa è una medica, che ci sono le architette e le avvocate. Non è una sciocchezza: battezzare col nome giusto significa “far esistere”, in questo caso le eccellenze delle donne. È vero, la lingua evolve e i vocabolari accolgono tutti le forme femminili di professioni un tempo esclusivamente maschili: ma qui è soprattutto un problema di grammatica, quella che si studia alle elementari. Credo che il rispetto della dignità delle donne parta anche da qui, dal linguaggio.

 

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Una campagna della Regione Puglia

Cos’è GIULIA: come nasce, a cosa ha dato vita, quali sono i prossimi obiettivi?
Nasce dalla ribellione di un gruppo di giornaliste – le pochissime che avevano incarichi di un qualche rilievo negli enti di categoria – che hanno incominciato a lavorare sulla rappresentanza nei giornali: ma il passo è stato brevissimo, ci siamo subito rese conto che il primo problema era quello della rappresentazione. Non eravamo contente di come i nostri giornali raccontavano la realtà del Paese, in particolare delle donne, dei giovani, del lavoro… Siamo state subito tantissime, in rete, oltre un migliaio in tutti i giornali, le tv, il web, in tutti i mestieri del giornalismo. Abbiamo creato nel 2012 l’associazione per poter intervenire in modo più strutturato, occupandoci di linguaggio (abbiamo pubblicato insieme alla Crusca “Donne, grammatica e media” e più recentemente “Stop violenza: le parole per dirlo”), di eccellenze femminili (con il progetto di banca dati sulle “100 esperte”, che in realtà sono già molte di più), ma stiamo per varare anche progetti su altri temi, come la medicina di genere. Sempre, ovviamente, guardando a come la stampa deve intervenire, perché l’informazione è un grande valore democratico e non si può bistrattarla.

Se avete correzioni o suggerimenti da proporci, scrivete a comunicazione@cesv.org

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