LA VITA NEI CAMPI, RACCONTATA DAI ROM

In un documentario di Gianni Carbotti e Camillo Maffia le immagini della desolazione, ma anche l'impegno degli attivisti Rom

di Paola Springhetti

«Sono scappata dalla guerra, ma qui è peggio», dice una signora che vive in uno dei campi rom della Capitale.  Arrivata qui in fuga dalla guerra nella ex-Jugoslavia, all’inizio degli anni novanta, è rimasta incastrata in un modo di vivere mortificante, che non riesce ad accettare. La sua testimonianza apre il documentario sulla vita nei campi Rom, Oltre la desolazione. La notte del diritto, girato da Gianni Carbotti, per le interviste e le riprese, e Camillo Maffia per il montaggio.

 

Realizzato nel 2019, il documentario descrive la condizione dei campi, raccogliendo le testimonianze di chi ci vive (in particolare a Via Salone e Via Salviati), e degli attivisti che difendono i diritti di Rom, Sinti e Caminanti. Ma anche quelle dei tanti Rom che hanno studiato, lavorano, vivono in una casa e si ribellano a come è trattato il loro popolo. Ne abbiamo parlato con Gianni Carbotti.

Qual è la cosa peggiore della vita nei campi Rom?

«Ovviamente la desolazione e l’abbandono, inaccettabili specialmente quando parliamo dei famosi campi attrezzati, a fronte dei soldi che sono stati spesi. I campi ormai sono un fenomeno, anzi uno spauracchio mediatico. La politica li usa per giustificare le proprie scelte, o per mettersi in mostra. Penso alle manifestazioni di Casapound  a Casal Bruciato, per impedire a legittimi assegnatari di entrare nella propria casa, ma penso anche a partiti di sinistra, che usano questi episodi come passerella per dire che “bisogna ripartire dalle periferie”.  Alemanno , quando era sindaco, ha avuto circa 30 milioni dal Viminale (guidato ai tempi dal leghista Maroni), più altri fondi da Regione e Comune per “l’emergenza nomadi”, cioè per 8mila persone. Mi colpisce sempre la sproporzione tra il degrado e il numero esiguo di persone di cui parliamo: 8mila a fronte di 4 milioni di abitanti di Roma Capitale.. Dovrebbero essere una presenza impercettibile. Basti pensare che in Turchia i Rom sono un paio di milioni, in Italia 140mila, di cui 90-100mila vivono nelle case e sono praticamente invisibili, integrati come tutti.»

Più volte nel documentario si dice che il clima d’odio è aumentato. È vero?

«Si è cronicizzato, ma è anche peggiorato. È il famoso problema del “pericolo percepito”. Ormai è vox populi che bisogna mandarli via, un’idea lapalissiana e trasversale. Il nostro paese è pieno di conflitti sociali, ma c’è una cosa su cui tutti sono concordi: i Rom non li vogliamo. E le forze politiche? La destra va sempre più verso l’estrema destra, che gioca con la paura, ma anche le formazioni progressiste dovrebbero andare più a fondo. Se avessimo applicato la Strategia Nazionale di Inclusione, avremmo già chiuso i campi, grazie ai Fondi Europei in essa previsti. Ma quell’ampio piano di finanziamento è rimasto su carta: Regioni e Comuni non hanno incassato i fondi, perché nessuno ha neanche provato ad implementare i percorsi, richiesti come condizione per erogarli. Hanno preferito il regime emergenziale, che fa comodo, perché permette di aggirare le regole.»

Nel documentario possiamo vedere e ascoltare esempi di mobilitazione non solo per i Rom, ma dei Rom stessi, che diventano attivisti, organizzano manifestazioni, prendono la parola. È un fenomeno in crescita?

«Da che esistono i campi Rom ci sono sempre stati attivisti che hanno cercato di far sentire la propria voce. Nel panorama desolante oggi c’è un fatto positivo: alcuni giovani che hanno studiato, si sono laureati, hanno trovato lavoro, si sono costruiti una vita normale e ora si stanno riunendo, cominciano ad organizzarsi. Rappresentano una speranza: una minoranza fa sentire la propria voce. Un’altra delle cose che mi ha impressionato nella condizione dei campi Rom è l’assistenzialismo, una vera piaga. Chi ci è cresciuto è abituato al fatto che ci deve essere un gagio (cioè un non rom) che li accompagna per un documento, una pratica, qualunque cosa debbano fare… Manca quel minimo di educazione civica, che permetta alle persone di rapportarsi con la società. I popoli si emancipano battendosi per i propri diritti: è la storia degli afroamericani negli Stati Uniti e di tutti i popoli oppressi, quindi è importante e giusto che siano i Rom stessi a rivendicare la loro dignità».

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