SEX OFFENDERS E TRANSGENDER: IN CARCERE UNA DOPPIA CONDANNA

Volontariato e carcere/2. Tutte le persone che vivono nei “reparti protetti” del carcere, finiscono per vivere una pena aggiuntiva

I sex offenders, i transessuali, tutte le persone che vivono nei reparti protetti del carcere, finiscono per vivere una pena aggiuntiva. La loro è una prigione nella prigione, un isolamento nell’isolamento. È un mondo nel quale è difficile, ma necessario, uscire dai pregiudizi e dagli stereotipi. Negli scorsi mesi Semi di Libertà Onlus ha organizzato un corso on line, Volontario dentro e fuori il carcere, per far conoscere molti aspetti utili a chi vuole occuparsi di questo mondo così delicato da approcciare, e ha aperto un gruppo su Facebook per discuterne.

Nei reparti protetti del carcere

«Aver seguito questo corso ci ha dato qualche spunto in più», spiega la volontaria Simona Ciaffone. «Quando parliamo di queste categorie, tutto viene ulteriormente esasperato. Se di solito le associazioni e i volontari sostituiscono le istituzioni, lo Stato, nel fornire strumenti per sopravvivere all’interno del carcere o per vedere una seconda possibilità all’uscita, in questo caso lo fanno in maniera ancora maggiore. Già il fatto che queste persone vivano in bracci separati, isolate all’interno di una realtà che già di per sé è abbandonata dal resto della collettività, aggrava la loro condizione».

La lezione del corso dedicata al tema è una di quelle che più ha lasciato il segno dei partecipanti. C’è chi, come Simona Ciaffone e Giulia Sbaffi, ha deciso definitivamente di iniziare il proprio progetto di volontariato – dedicato ai transgender –  proprio a partire da qui. Abbiamo deciso di saperne di più. Ma anche di sapere di più sui sex offenders, attraverso la testimonianza di chi lavora quotidianamente con loro come professionista, ma con una cura e una dedizione che vanno oltre il normale lavoro. E capire come questo lavoro possa essere portato avanti, anche fuori dal carcere, dalle associazioni.

L’ammissione è il punto di partenza

Felicia Cataldi, educatrice, lavora da anni con i detenuti che sono condannati per reati di violenza sessuale su minori, con un progetto sperimentale presso la casa circondariale di Siracusa, attivo dal 2009. E dove è stato dimostrato che la recidiva, per chi è stato in trattamento terapeutico, è quasi nulla. Il lavoro di terapia consiste in alcune ore alla settimana, in uno o due gruppi con nuovi elementi uniti a elementi più esperti che fanno da traino.

 

carceri«Nel momento in cui vengono arrestate queste persone, il cui reato è considerato il più infamante, vengono messe cautelativamente in queste sezioni protette dove non sono detenute solo questo tipo di persone, ma anche, ad esempio, i collaboratori di giustizia», ci spiega. «Per la loro storia personale sono considerate a rischio. C’è un forte stigma per chi commette questo reato nei confronti dei bambini, per cui rischiano la pelle. Sono consapevoli di questa legge, e vivono una doppia condanna, dalla giustizia e dalla legge carceraria».

«Per la pedofilia parliamo di distorsioni cognitive, alterazioni di pensiero messe in campo in maniera inconsapevole», spiega l’educatrice. «Dicono a se stessi, e agli altri, cose come “Il bambino mi provocava, la bambina metteva la minigonna”, meccanismi di cui sono invasi e permettono di mettere in atto il comportamento e non sentirsi in colpa». In questo modo negano, prima di tutto a se stessi, il loro comportamento, e così non si sentono colpevoli. «Devono negare sennò sono perduti», spiega l’educatrice. «Il legislatore ha capito che c’era un disturbo e, oltre a inasprire le pene, doveva prevedere la cura. Così, prima di accedere alle misure alternative al carcere devono fare un percorso di un anno con l’ausilio di uno psicologo».

«Dai nostri colloqui abbiamo capito che sono dei muri di gomma», continua. «Li abbiamo messi in gruppo, parliamo della violenza nei confronti del minore. Per loro la violenza è legare la persona, atto sessuale completo. La violenza è invece un concetto molto ampio, è anche far assistere un minore a un rapporto o a dei filmati. Cominciano ad aprire la mente e viene fuori quello che hanno fatto. L’ammissione è il punto di partenza e spesso è un percorso che richiede anni. Dietro troviamo storie di eccessive attenzioni dalla famiglia, o violenze subite, parliamo di fattori predisponenti, fattori di rischio. Ripercorrendo queste vicende familiari, questi eventi, le persone cominciano a sentire emozioni che sono state congelate. In questo modo cominciano a contemplare nella loro vita l’altro, sviluppano l’empatia, che li porta a contatto con la vittima. È un momento durissimo. Ci sono stati casi di incesti, e averne la coscienza ha portato anche al suicidio».

La cura anche fuori dal carcere

Il percorso di cura è un percorso molto lungo, di anni. Il periodo di permanenza in istituto non basta a completarlo. E fuori non esiste nulla. «Con la pandemia ci siamo inventati l’idea di seguirli on line», spiega Felicia Cataldi. «E ora c’è un’associazione in via di nascita, che fa capo alla Caritas di Siracusa, per assicurare un precorso gratuito anche per chi è uscito di prigione».

Le risorse e le abilità sociali per chi, al termine di un percorso, esce dal carcere, tendono a venire fuori. «Una persona, uscita dal carcere, ha trovato lavoro», spiega Cataldi. «Con la moglie erano in guerra, fino a quando c’è stata l’occasione di vedersi, di parlare. Si è resa conto del cambiamento è andata a fare le pulizie da lui. Lo ha accompagnato a fare una visita. Gli ha detto: “vedo in te una persona diversa. Una persona nuova”». Tutto questo può accadere se c’è la presa di coscienza del problema. «Sono persone che vanno curate: l’opportunità andrebbe data a tutti, ma spesso non succede. Fuori sono schegge impazzite, è un disturbo che continua. E spesso sono persone che riescono a funzionare socialmente, perché il disturbo è in una parte di loro che non dialoga con l’altra».

I diritti dei transgender

Anche i transgender che vivono in carcere scontano una doppia condanna. «In questo caso l’emarginazione è dovuta a una totale ignoranza, cioè non conoscenza, di quelle che sono le possibilità reali, dal punto di vista giuridico, di uscire dal carcere», spiega Simona Ciaffone, tirocinante al Tribunale di Sorveglianza di Roma e praticante abilitato in uno studio di diritto penale e all’inizio del suo percorso di volontaria. «E nasce anche da un fatto culturale. Sono persone totalmente avulse da realtà criminogene, che si trovano in Italia per sopravvivere e vengono sbattute in carcere e lasciate lì e dimenticate. È un’emarginazione nell’emarginazione. Spesso si tratta di persone poverissime che non hanno un legale, o un legale d’ufficio, che non sempre funziona. Manca la possibilità di conoscere la loro condizione, come identità di genere. Ma anche a livello di diritti fondamentali e poi di diritti del detenuto».

Ascoltare le storie dei transgender

Simona Ciaffone e Giulia Sbaffi, dottoranda in Storia italiana all’Università di New York, hanno dato vita al loro progetto di volontariato, Disforia di sistema. «È un progetto che nasce dal desiderio di andare a guardare partendo da un dato: nella popolazione carceraria di Rebibbia ci sono 25 detenuti transgender, tra uomini e donne transgender, che sono assegnati a un settore che non corrisponde a quello dell’identità di genere rivendicata dai soggetti», spiega Giulia Sbaffi. «Qui si crea un primo, grande elemento di vulnerabilità, all’interno di uno spazio già vulnerabile, quello del carcere».

 

reparti speciali in carcere
Un’immagine da “Ramona e Giulietta”, rappresentato in carcere a Rebibbia

«Da questo piccolo frammento abbiamo unito la conoscenza che Simona ha dell’apparato legale del carcere, a quello che ho appreso nei miei studi. Sto facendo una tesi di dottorato in Storia italiana, a New York, sulla rivendicazione politica del lavoro sessuale, andando a intervistare alcune comunità di lavoratrici e lavoratori sessuali in alcune zone d’Italia».

Queste due esperienze si sono così completate, per creare un progetto che entrasse nel carcere su due momenti. «Il primo è la distribuzione di un questionario, che abbiamo scritto insieme, con domande molto forti», spiega Giulia Sbaffi. «Intersecano infatti la loro esperienza nel carcere con la loro esperienza di transizione di genere, se l’hanno fatta. A noi è servito a creare un primo contatto. Entrare nell’istituzione carceraria non è semplice, con il Covid diventato ancora più difficile. Dal questionario speriamo di avere un incontro e un dialogo, facilitato da alcune letture, dalla presenza di alcune figure di appoggio».

«Il nostro obiettivo è quello di raccogliere delle storie, storie di vita carceraria», spiega Giulia Sbaffi. «Ci interessa quello che può succedere dopo il carcere. Per i transgender migranti che sono all’interno del carcere, perché portate dentro per reati legati alla prostituzione, non avere un luogo dove andare una volta uscite, rende tutto più difficile. La casa è un elemento centrale. Prima e dopo il carcere, con un impianto legislativo che non riconosce la casa di prostituzione, la possibilità di prendere un domicilio da parte di chi fa il lavoro sessuale significa essere completamente invisibili se non poi ipervisibili all’interno del carcere, dove si è detenuti e controllati».

«Abbiamo riscontrato che non c’è un riconoscimento dell’identità di genere», fa notare Giulia Sbaffi. «Il fatto di riconoscersi donna ed essere assegnata invece a un braccio maschile è una grande violenza, vuol dire cancellare un percorso di emersione identitaria».

Leggi anche: VOLONTARI IN CARCERE: ECCO CHI SONO E COSA FANNO (retisolidali.it)

 

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