ROTTA BALCANICA: NON GESTIRE LE MIGRAZIONI È UNA SCELTA STRATEGICA

"Bosnia ed Erzegovina, la mancata accoglienza" è il report di RiVolti ai Balcani. I campi di accoglienza sono strumento di segregazione e confinamento.

Si chiama Una Sana ed è un cantone della Bosnia al confine con la Croazia. È considerato il territorio simbolo della “non-gestione” strategica della questione migratoria da parte delle autorità bosniache. Dal maggio del 2018 due cittadine del cantone, Bihać e Velika Kladuša, sono diventate il crocevia di persone, migranti e richiedenti asilo bloccati alle porte dell’Unione europea, a vivere in condizioni terribili, disumane. Su Reti Solidali lo scorso inverno avevamo riportato le testimonianze delle condizioni di un campo a Bihać (qui il lnk). Ora torniamo a parlare della Rotta Balcanica, quel percorso che molti migranti fanno e che non fa clamore come le  migrazioni sui barconi, su cui sono stati puntati a lungo invece i riflettori durante gli scorsi anni. “Bosnia-Erzegovina: la mancata accoglienza” è il  dossier di denuncia e informazione curato della rete RiVolti ai Balcani. Il dossier è disponibile gratuitamente sul sito di Altreconomia (qui il link).

Meno posti di accoglienza

I finanziamenti europei ammontano a 88 milioni di euro dal 2018 al gennaio 2021, con l’aumento di 3,5 milioni di euro dopo l’incendio del campo di Lipa del 23 dicembre 2020.

rotta balcanica
Il dossier di RiVolti ai Balcani si può scaricare gratuitamente

Eppure il numero dei posti di accoglienza nei centri di tutta la Bosnia è sempre rimasto di alcune migliaia. Non ha mai superato i circa 8mila posti, ed è andato addirittura a diminuire nel corso del tempo. All’inizio del 2021 i posti disponibili erano appena 4.760 contro gli 8.282 dell’anno precedente.

Se pensiamo che nel mese di maggio 2021, secondo l’ultimo report dell’Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), sono stati registrati dalle autorità bosniache 1.937 nuovi migranti e richiedenti asilo, portando il numero totale di arrivi a 5.920 nel 2021 per un totale di 75.333 da gennaio 2018, è chiaro quanto questi posti siano inadeguati. Per non parlare del fatto che si tratta di strutture degradate e isolate dal contesto sociale.

Una politica dell’abbandono

Sono numeri che svelano una strategia ben precisa da parte del Cantone Una Sana, una strategia portata avanti con finanziamenti europei, che punta sulla concentrazione delle persone in campi fatiscenti e degradati, limitando però i posti di accoglienza e favorendo una politica dell’abbandono di chi sceglie o è costretto, per mancanza di alternative, a vivere in condizioni di informalità. Secondo l’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) e il Servizio Affari Esteri nell’inverno 2020/21, a seguito della diminuzione del numero dei posti nei campi e con l’arrivo di nuove persone, il numero di migranti nei boschi, in aree pericolose e edifici abbandonati nel cantone Una Sana è cresciuto notevolmente superando anche le tre mila persone. È un numero enorme. Ed è unito al fatto che esiste un vero e proprio “piano della deterrenza” attuato dal governo del cantone bosniaco che considera criminali di tutti quelli che vivono in contesti informali. E che così devono subire continuamente sgomberi, detenzioni arbitrarie, violazioni della libertà personale.

Un continuo incitamento ai discorsi d’odio punta così alla creazione di un ambiente ostile, precario e pericoloso che renda ancor più dura e difficile la sopravvivenza di chi ha raggiunto il territorio del cantone, scoraggiandolo nel rimanere. E che serva da forte disincentivo per i nuovi arrivi. «Il cantone Una Sana è paradigmatico di quello che succede in tanti altri luoghi sulla rotta», spiega Diego Saccora, operatore sociale dell’associazione Lungo la rotta balcanica. «All’inizio la popolazione locale ha mostrato vicinanza alle persone che arrivavano. Con il passare del tempo, il supporto a queste persone è stato messo sotto una lente negativa da parte della classe politica. Criminalizzazione della solidarietà e utilizzo di un certo tipo di narrazione porta ad un incattivamento del discorso pubblico e della narrativa del fenomeno rispetto a cui, la Bosnia, risulta un Paese molto giovane rispetto a tanti altri. Pensiamo all’Italia e alla Grecia, interessati dal fenomeno da più anni».

«Chi era presente in Bosnia nel 2018, si ricorda che potevano essere affittati luoghi alle persone migranti», continua. «Oggi tutto questo è vietato, così come l’utilizzo dei trasporti pubblici, dei taxi. Lo strumento della deterrenza pian piano va a colpire la cittadinanza chiedendo un aiuto e un avvallo nel fermo delle persone. Questo non può che creare tensione, un sentimento di pericolo e odio».

Il campo, strumento di segregazione 

Nella primavera del 2021 nel campo di Lipa sono iniziati i lavori per la costruzione di opere idriche ed elettriche, per rendere il campo adatto a contenere, nel periodo invernale, circa 1.500 persone tra uomini, famiglie e minori non accompagnati. «A quasi sette mesi dall’incendio del campo di Lipa, che ha acceso i riflettori dei media nazionali e internazionali sulla Bosnia per una situazione che esisteva da ormai 3 anni, oggi di quel campo non si parla più», spiega Anna Clementi, operatrice sociale dell’associazione Lungo la rotta balcanica. «Anzi, per l’Ue è diventato un modello da finanziare e replicare nonostante sia uno strumento di segregazione e confinamento delle persone. Il campo è un dispositivo che non ha solo lo scopo di immobilizzare le persone ma anche di controllare il loro movimento e diventare un dispositivo di deterrenza nell’intraprendere il viaggio. Questo ha un impatto psicologico devastante: le persone vivono un tempo sospeso, un’attesa infinita».

Fermi alle porte dell’Europa

La strategia dell’Unione europea, anche per la rotta balcanica, è quella già vista in Grecia e in altri Paesi prossimi alle sue frontiere esterne. Si tratta di confinare le persone in campi dagli standard estremamente bassi, lontani dai centri abitati, fortemente controllati. Anche perché i cinque Paesi dei Balcani continuano ad avere un sistema d’asilo nullo o comunque molto restrittivo: nel 2020, a fronte di appena 264 domande esaminate, c’è stato un diniego del 68%. Oltre a questo non esistono programmi pubblici per l’inclusione sociale rivolti ai rifugiati.

La volontà dell’UE e di questi Paesi è chiara: nessuno si deve fermare in questi luoghi sulla rotta balcanica, alle porte della “Fortezza Europa”. «Le persone che percorrono la rotta non intendono fermarsi in Bosnia, ma una riflessione su questo aspetto va fatta», ragiona Anna Brambilla, avvocata, socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. «Anche laddove queste desiderassero fermarsi, il sistema bosniaco non è in grado di prendersene cura. I dati evidenziano come l’esame delle domande d’asilo richiedono tempi lunghi e con una certa rigidità nelle decisioni nonostante i richiedenti provengano da Paesi, quali l’Afghanistan o Pakistan, in cui non possono rientrare. L’Unione europea ha finanziato, dal 2018 al gennaio 2021, quasi 88 milioni di euro non solo per rafforzare il sistema asilo bosniaco, ma soprattutto per rafforzare le capacità di controllo dei confini da parte della polizia di frontiera».

Con soldi dei cittadini europei

«Questo rapporto evidenzia la continuità nell’approccio nella non-gestione del fenomeno, dal 2018 ad oggi, con l’appoggio dall’Unione europea, che mira a bloccare le persone, senza fornire loro un’alternativa e, al contrario, rendendo impossibile la permanenza nel Paese», riflette Gianfranco Schiavone, dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. «Quella dei migranti in Bosnia è un’emergenza creata artificialmente, che ormai perdura da anni. Una strategia scellerata che vede responsabilità della Bosnia, ma soprattutto delle istituzioni europee che finanziano la realizzazione di questi campi in cui vengono sistematicamente violati i diritti di migranti e richiedenti asilo di chi vi è confinato. Con un contemporaneo abbandono di coloro che vivono in luoghi informali, per scelta, o perché i posti non sono sufficienti». «Serve cambiare rotta cessando di finanziare politiche di questo genere» continua. «Non è possibile che con soldi dei cittadini europei vengano finanziati campi di questo tipo. In futuro ci chiederemo come è stato possibile realizzare tutto questo. Confinare duecento minori su un altopiano, lontano dai centri abitati, senza prospettiva. Come è possibile accettare tutto questo?»

 

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