UCRAINA: QUALE RIFUGIO PER LE PERSONE IN FUGA?

Mentre si cerca di lavorare per la pace, è scattata la solidarietà con i profughi. Ma ci sono molti problemi aperti

La guerra in Ucraina ha sconvolto le agende di tutti gli operatori umanitari e, come dicono in molti, ci ha portato indietro di vent’anni. Il mondo delle migrazioni e dell’accoglienza è stato scardinato, stravolto. La Rete Rivolti ai Balcani, che da anni si occupa della situazione sui confini più caldi dell’Europa, come quelli in cui culmina il percorso della Rotta Balcanica, ma non solo, ha organizzato il 14 marzo un incontro on line, Ucraina: pace, protezione, accoglienza. quale rifugio per le persone in fuga?, in cui sono stati sviscerati i tanti temi in ballo in questi giorni in cui, davvero, si sente e si vede di tutto.

Primo, fermare la guerra

«Se ne sono sentite troppe, in questi giorni, create apposta una stampa e una politica militarizzata» ha esordito Francesco Vignarca, della Rete Italiana Pace e Disarmo.

Roma. La Manifestazione per la pace del 4 marzo 2022

«Noi non siamo equidistanti, noi siamo vicini alle vittime. Il punto di partenza del disarmo umanitario è sempre quello: scegliere strade a difesa della popolazione civile e delle fasce più deboli. La cosa fondamentale da dire è che quando c’è una guerra non si può costruire la pace, si può fare prima e dopo. L’esigenza fondamentale in questo momento è far cessare la guerra, far cessare il pericolo immediato per la popolazione civile».

La guerra è una forma strutturale della violenza. «Come è strutturale la violenza, deve essere strutturale anche la risposta», riflette Vignarca. «Le letture di una risposta militarizzata vengono banalizzate. Noi dobbiamo abbracciare la complessità. Abbiamo delle proposte, le avevamo prima del conflitto. Avevamo preannunciato una serie di deterioramenti già da due o tre anni. Le proposte che facciamo sono dedicate al soccorrere; corridoi umanitari, protezione dei civili, cessate il fuoco sulle città, diplomazia immediata per un cessate il fuoco, interposizione possibile delle Nazioni Unite e anche di altri paesi non in termini militari ma in contesti di peacekeeping. E successivamente vanno attivati tutta una serie di percorsi di natura politica, come un negoziato per vedere una sicurezza condivisa nella regione. Crediamo che i negoziati non debbano essere bilaterali ma plurilaterali».

Armi no

E poi c’è il discorso della demilitarizzazione «Crediamo a una demilitarizzazione e a un disinvestimento dalle spese militari e in un investimento nelle spese sociali, del miglioramento della vite per le persone, che sono l’unico modo per evitare le guerre» riflette Vignarca. «Siamo arrivati alla guerra perché qualcuno l’ha voluta, l’ha preparata, ovviamente in misure diverse: perché ci possono essere varie dinamiche che la preparano, ma poi chi la scatena ha la principale. Ma una volta che ci si arriva non si può pensare di risolvere la situazione in poco tempo, con la bacchetta magica, e purtroppo questo vuol dire morti e feriti. A meno che chi ha lanciato la guerra dica: basta ci fermiamo».

La chiave è la demilitarizzazione. «Il tema è: “armi si armi no”» precisa Vignarca. «Anche se, mistificando, tentano di proporre una proposta “armi sì” dicendo che risolverebbe le cose». La convinzione dei movimenti per la pace si basa su un’evidenza scientifica. «In tutti gli studi abbiamo visto che se c’è un flusso di armamenti il conflitto peggiora, si inasprisce e chi subisce le conseguenze è la popolazione civile», continua Vignarca. «Mandare armi, oltre ad essere una partecipazione al conflitto con un rischio di escalation, in realtà non risolve. Non sappiamo neanche a chi arrivano. Non funziona, non è che lo diciamo perché siamo i pacifisti non violenti».

E poi non dimentichiamo la grande paura che abbiamo tutti in questo momento. «C’è una possibile escalation che comporta una componente nucleare», spiega Vignarca. «Questo è il problema grosso, quello vero. Per questo bisogna andare con i piedi di piombo. Se parte un’escalation nucleare, qualcuno pensa che potrebbe essere un’arma tattica usata solo in Ucraina da Putin per fare vedere che è un duro. Ma non esiste un’arma nucleare che sia solo tattica. Ogni utilizzo di arma nucleare è strategico. Nel mondo ci sono ancora 13500 testate nucleari, di cui 6mila le ha la Russia e 5500 gli Stati Uniti e se dovesse partire un’escalation nucleare. dimenticatevi il mondo come lo abbiamo conosciuto finora. Non sarebbe possibile nessun intervento umanitario. Per questo dopo la pace, deve partire un forte disarmo nucleare».

L’accoglienza dei profughi

I profughi ucraini, intanto, godranno di una protezione temporanea anche a livello normativo. «Il consiglio europeo, il 4 marzo, ha riconosciuto l’esistenza delle condizioni per l’applicazione di una direttiva che tutti davano per morta, o mai nata», illustra Gianfranco Schiavone di ICS Trieste. «È la Direttiva 55 del 2001 dell’allora Comunità Europea, nata dopo le guerre nella ex Jugoslavia, una direttiva che non c’è mai stata. Lo scopo della direttiva era quello di disciplinare una situazione di afflusso massiccio di persone, che per ragioni di guerra hanno dovuto lasciare il loro territorio e si riversano nell’Unione Europea. Era nata per disciplinare un trattamento favorevole nei confronti di queste persone, prevedere una solidarietà intraeuropea, per la distribuzione delle responsabilità». Quella della direttiva è senza dubbio un’applicazione giusta. «Il problema è che vedremo applicazioni differenziate tra i vari paesi, e non sappiamo quale sarà quella italiana» commenta Schiavone. «A dieci giorni dall’inizio delle ostilità non c’è un decreto del consiglio dei ministri che dà attuazione alla delibera della Ue. La condizione dei profughi ucraini c’è in decreto legge, che estende la accoglienza anche a loro, ma non c’è ancora una definizione giuridica di queste persone».

Gli scenari possibili sono molto delicati, molto gravi. «Con il passare del tempo c’è la percezione evidente di un conflitto che non finirà in brevissimo tempo» riflette Schiavone. «Per le dinamiche sul campo e per le scelte fatte dalle parti, siamo di fonte a un conflitto, se non di lunga durata, quantomeno di media durata e non è facile pensare a un ritorno veloce dei profughi nelle loro terre.

Gli errori dell’Europa

L’Europa dovrà fare uno sforzo senza precedenti, in termini quantitativi e qualitativi. Di redistribuzione ancora non si parla, perché alcuni profughi si stanno autocollocando, sono andati dove avevano già i loro contatti e questo sta sollevando l’Europa dall’intervenire. Delle persone arrivate in Italia pochissime hanno avuto bisogno di un’assistenza pubblica. Io vivo a Trieste e ogni giorno vedo arrivare almeno 2mila persone. Nelle prossime settimane arriveranno anche quelli che non hanno contatti, che non hanno supporto, e chiederanno assistenza pubblica. L’Italia dovrà affrontare uno scenario abbastanza chiaro, dovrà scattare il senso profondo della direttiva, il principio di redistribuzione sulla base di quote Paese. Ma sicuramente la Polonia non potrà gestire la quantità di profughi che sta gestendo oggi. È legittimo e doveroso che scatti il piano della redistribuzione».

La vicenda sul piano dell’accoglienza è senza precedenti. «E ci arriviamo purtroppo largamente impreparati per ragioni politiche» spiega Schiavone. «Per la prima volta, questa possibilità ci aiuterà a ripensare agli errori del passato, al fatto che la politica dell’Unione Europea in materia di asilo è sempre più chiusa e legata a un tentativo di esternalizzare, di bloccare le persone fuori dai confini. E sempre meno legata alla solidarietà. L’Europa dell’Est aveva fatto della non solidarietà interna e della battaglia feroce contro la redistribuzione il suo credo politico. La direttiva non è stata attuata per 21 anni, e non perché non ci sono state le guerre. Chiunque si ricordi dell’arrivo dei siriani nel 2015, ricorderà che era un arrivo imponente, così come quello degli afgani. E allora dovrebbe riflettere sul fatto che la direttiva avrebbe potuto ricollocare gli afgani. Avremmo potuto utilizzare questa direttiva sviluppando un sistema d’asilo, che oggi in Europa sarebbe molto diverso, e ora non sarebbe stata la prima volta che dobbiamo affrontare questo problema. Oggi avremmo dovuto gestire una situazione molto più grande, ma ci saremmo arrivati in modo diverso».

L’accoglienza decentrata

C’è una grande comunità ucraina presente in Italia che sta fornendo accoglienza. È un polmone informale che sta dando le prime risposte in questa situazione, che per noi è nuova. «Le persone in fuga dall’Ucraina stanno vivendo un dramma che non è in nulla diverso da quello di tante persone interessate dagli altri 33 conflitti che sono in atto per il mondo» spiega Maria Cristina Molfetta della Fondazione Migrantes. «Ma è impattante su Europa e Italia perché è vicino, e i paesi vicini sono parte dell’Unione Europea. L’Italia, pur non essendo il Paese più vicino è coinvolta, perché c’è la più grande comunità ucraina europea, conta quasi 250mila persone, di cui quasi 90 mila persone sono donne che si occupano di assistenza familiare nelle case, e in tante non hanno una casa propria. Gli italiani in Ucraina sono stati 50mila e dagli anni dopo Chernobyl le varie reti di accoglienza dei minori italiani hanno dato possibilità a quasi 500mila bambini ucraini e russi di passare tre mesi in Italia».

C’è quindi un legame profondo tra il nostro paese e l’Ucraina. «Le persone arrivate in Italia sono quasi 40 mila, tra cui 15 mila minori. Quelli che hanno fatto richiesta di asilo sono sì e no 60. Questo dà una dimensione di quanto poche siano le persone che hanno chiesto un’accoglienza strutturata, e si stanno appoggiando a questo tipo di reti. Che però sono fatte di persone che magari non hanno una casa, che non ce la farebbero nel tempo a mantenere un altro nucleo familiare».

Il numero di posti previsti per l’accoglienza strutturata, intanto, sono inadeguati. Sono stati previsti 5mila posti dentro ai CAS, i Centri di Accoglienza Straordinaria, e 3mila posti dentro al SAI, il Sistema Accoglienza Integrazione, quello più strutturato. Ma si stima che in Italia potrebbero arrivare tra le 700 e le 800mila persone, per cui si può capire come questi posti non bastino. «Sarebbe importante che tutte la città dove le comunità ucraine sono presenti venissero coinvolte molto di più per non perdere questa spinta fondamentale di mediazione spontanea» propone Maria Cristina Molfetta. «Bisognerebbe tenere conto del punto di vista degli ucraini: stanno scegliendo un’accoglienza decentrata presso le loro famiglie. Se non ci attrezziamo in maniera celere rischiamo di fare dei passi indietro: se non saremo celeri nel supportare questa accoglienza rischiamo di mettere in atto in maniera tardiva delle tendopoli che non sarebbero adeguate alle esigenze delle persone».

Molti profughi, in ogni caso, rimarranno vicino al primo Paese dove sono espatriati. «Gli studi ci dicono che i profughi accettano di spostarsi in altri paesi solo dopo qualche anno, perché è solo quando perdono la possibilità di rientrare che decidono di allontanarsi», spiega Maria Cristina Molfetta.

Il problema dei servizi

Ma questa situazione sta portando all’esplosione di tutte le questioni irrisolte del nostro sistema di accoglienza. «I profughi hanno bisogno di una nuova relazione con i servizi», spiega Michele Rossi del CIAC di Parma. «Hanno un bisogno di accoglienza, ma un bisogno sanitario che va oltre il tema presente legato al Covid. Si tratta di esigenze sanitarie che derivano dalle modalità in cui si è svolta la permanenza in un paese in guerra. Hanno bisogno di informazioni per la scuola, per la cura e il benessere dei minori che stanno arrivando. Per questo non possono essere lasciati soli.  E quelle contraddizioni che vediamo esplodere c’è la scarsa capacità del sistema di adattarsi a nuove esigenze. È un sistema emergenziale, che offre servizi a tempo e servizi minimi, essenzialmente vitto e alloggio, che si sposa poco con i bisogni degli ucraini, ma non solo».

«Un altro tema che sta esplodendo è la parcellizzazione territoriale dei progetti, la suddivisione a macchia di leopardo e lo scarso coordinamento a livello europeo, ma anche territoriale e intraprovinciale», continua Rossi. «Un’ulteriore contraddizione che si vede in modo evidente in questo momento è la scarsa integrazione nei servizi sociali sanitari e scolastici tra il circuito dell’accoglienza e i servizi territoriali. C’è la necessità che si faccia urgentemente una seria riflessione su questi temi».

C’è un grande ritardo nelle pratiche che devono essere messe in atto in questa situazione. «Stiamo cercando di fare arrivare alle famiglie che ospitano le informazioni necessarie. Ma l’unica risposta di accoglienza è a carico di associazioni e reti del Terzo Settore, evidenziando lo scarso coordinamento tra istituzioni e servizi». Da poco, intanto, è stata risolta la questione dell’iscrizione al sistema sanitario regionale. «Ora si può fare direttamente al Cup, ma fino a poco tempo fa necessitava di una prescrizione medica», spiega Rossi.

«In questa situazione ci sono anche delle buone notizie. «C’è un clima culturale finalmente favorevole, un’ampia solidarietà», commenta Rossi. «Stiamo ricevendo molte disponibilità di appartamenti e di accoglienza in famiglia. Una delle cose che andavano fatte e non sono state fatte. e anche su questo scontiamo un ritardo, è chiedersi come integrare nel sistema senza abbandonarli chi si sta mettendo a disposizione, come privato o come comunità. Bisogna anche far sì che tutto questo non riguardi solo una guerra, solo una popolazione alla volta. Quando riusciamo ad accogliere ci scopriamo una comminuita più coesa, più capace di risolvere i problemi di tutti».

Qui il video dell’evento: Ucraina: pace, protezione, accoglienza. Quale rifugio per le persone in fuga? – YouTube

UCRAINA: QUALE RIFUGIO PER LE PERSONE IN FUGA?

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