WELFARE RESPONSABILE. IL MANIFESTO PER UNA SALUTE DI PROSSIMITÀ

Una proposta della Rete di welfare responsabile, il Manifesto dà indicazioni concrete per una ridefinizione dell'assistenza territoriale a partire dalla persona. Giarelli: «L’ospedale non è il primo presidio, è secondario se la prima linea funziona adeguatamente».

Come ripensare il settore dell’assistenza territoriale, partendo dalla persona e dalla sua centralità? Una proposta circostanziata e dettagliata arriva dalla Rete di welfare responsabile – Gruppo Salute, che ha lavorato un anno per elaborare il Manifesto per una salute di prossimità. Una ricalibratura dell’assistenza territoriale del Servizio Sanitario Nazionale a partire dalla centralità della persona.

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Il Manifesto è stato presentato ieri, 14 ottobre, presso l’Istituto Sturzo di Roma

Una proposta frutto della collaborazione fra alcuni tra i maggiori esperti di salute del nostro Paese e il gruppo di lavoro multidisciplinare della Rwr, presentato ieri, 14 ottobre, presso l’Istituto Sturzo di Roma. Partendo dalla crisi pandemica e dai nodi irrisolti del sistema salute che la precedono, il testo cerca di delineare una configurazione dell’assistenza innovativa, con una governance multilivello e multistakeholder.

Aprendo i lavori, il vicepresidente dell’Istituto Luigi Sturzo Andrea Bixio ha sottolineato: «Il lancio del Manifesto è estremamente opportuno, avviene in un momento delicato del nostro Paese e nel periodo migliore, per certi aspetti. Rimettere in funzione la sanità di prossimità può essere una maniera per investire ancora nella sanità. Una strada virtuosa, perché ridarebbe un ruolo alla famiglia nella cura, alle donne che sono sempre state fondamentali». Poi ha segnalato «la mancanza d’informazione sulla possibilità di cura, che avviene soprattutto con il passaparola. Quindi il Manifesto è un grande progetto che può qualificare la politica italiana nei prossimi anni, un esperimento sociale della massima importanza».

Proposte concrete per passare dalla sanità alla salute

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Guido Giarelli, coordinatore Rete del welfare responsabile – Gruppo Salute

«La nostra mission principale è fare delle analisi e delle proposte che possono essere realizzate e declinabili in senso operativo, ponendo al centro la persona e non l’individualismo o l’assistenzialismo, perché la persona è relazionale e storica», ha sottolineato il professor Vincenzo Cesareo, del coordinamento scientifico Rete del welfare responsabile. «Speriamo che trovino forme di collaborazione il welfare aziendale, quello comunitario e municipale, ovvero i tre pilastri dello Stato, del mercato e del terzo settore. Perché le risorse del welfare diminuiscono, le esigenze aumentano. La responsabilità collettiva deve coinvolgere tutti i soggetti che devono interessati al welfare: tutti devono partecipare con le loro risorse, anche quelle malate, con un’attivazione capacitante», ha aggiunto. Come modalità di lavoro «abbiamo scelto di affiancare alla rete di studiosi (fra i quali molti giovani) di 19 atenei una rete di strutture che operano sul campo nel welfare. Crediamo che lavorare insieme – chi fa ricerca e chi fa attività sul territorio – possa essere una ricchezza per gli uni e per gli altri».

Il dibattito «non è puramente teorico: ci sono in ballo i 20 miliardi del PNRR sulla sanità. C’è chi vorrebbe appaltare al privato le Case della comunità, gli ambulatori sul territorio», ha rimarcato il professor Guido Giarelli, coordinatore Rete del welfare responsabile – Gruppo Salute e docente di Sociologia generale e della salute presso l’Università degli Studi Magna Græcia di Catanzaro. «La nostra è una proposta di ricalibratura e ridefinizione del Servizio Sanitario Nazionale non a partire dall’ospedale: non è il primo presidio, la prima linea delle cure, ma è secondario se la prima linea funziona adeguatamente. Quello che non è successo con la pandemia, con i pronto soccorso intasati», ha osservato. Per circa un anno il Coordinamento Salute ha ragionato sulla sanità territoriale, mettendo a punto un Manifesto «che è una visione del futuro con proposte concrete». Occorre passare «dalla sanità alla salute, cioè su una centratura verso le reti di prossimità, per una riorganizzazione del sistema delle cure primarie e dei servizi territoriali. La casa è il primo luogo di cura, il domicilio del paziente, perché la persona si fa carico in primo luogo della propria salute. Ma deve essere previsto l’inserimento dei servizi sociali, per l’integrazione sociosanitaria», ha auspicato Giarelli. L’ospedale andrebbe ripensato «per tipologia e setting di cura, in una visione reticolare non gerarchica e non specialistica, con l’idea di includere non solo le reti formali ma anche quelle informali, guardando al contesto di vita della persona: i familiari, i badanti, la società civile con i vari gruppi di associazionismo di cittadinanza. Abbiamo quindi disegnato una topografia dei luoghi di cura, cercando di coinvolgere i soggetti della sanità territoriale. Ipotizziamo team di home-care a domicilio e un rafforzamento dei servizi semi-residenziali, oltre al cohousing. Per farlo è necessario investire sulle risorse umane e sui percorsi formativi», ha concluso Giarelli.

La vera piaga, l’integrazione socio sanitaria

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Giarelli: «Il dibattito non è puramente teorico: ci sono in ballo i 20 miliardi del PNRR sulla sanità»

«Questa iniziativa mette il dito dentro la vera piaga: l’integrazione sociosanitaria», ha denunciato Francesco Enrichens, chirurgo d’urgenza e project manager di Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, che ha rilevato: «Il 50% delle persone anziane si ammalano perché non ha una rete di relazioni». Su Frosinone ci sono 0,5% chiamate per notte alla guardia medica, che nel Lazio contava due anni fa soltanto 116 postazioni, una ogni 50.565 abitanti, mentre la media italiana è 20 mila abitanti. Peggio del Lazio solo la Provincia autonoma di Bolzano, che ha 7 punti di guardia medica, una ogni 70 mila abitanti.

«Nelle prime settimane del Covid è emersa una terribile strage di anziani, come anche le morti in solitudine nelle case. Per la prima volta nella storia noi vecchi siamo milioni, una popolazione “nuova” di cui non sappiamo cosa fare con un’idea della vecchiaia come naufragio», ha evidenziato l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente Commissione interministeriale per le politiche a favore degli anziani e presidente della Pontificia accademia per la vita. «Abbiamo lavorato per due anni e nell’ultimo Consiglio dei ministri è stato approvato il Disegno di legge» che prevede politiche in favore delle persone anziane, anche in attuazione delle missioni 5 e 6 del PNRR in materia di assistenza agli anziani non autosufficienti. «La pandemia ci ha imposto un cambio di paradigma, il passaggio dalla sanità a un modello di salute comunitaria in cui la casa divenga il primo luogo di cura, perché è il luogo più terapeutico che abbiamo e dove ogni operatore che entra è un ospite», ha sottolineato Salvatore Rao, presidente La bottega del possibile, «che ha inventato la cultura della domiciliarità» e partecipante al movimento Prima la comunità, che ha portato alla realizzazione delle Case della comunità. Cristiano Gori, coordinatore del Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza, ha proposto una sinergia con il metodo del Manifesto, «che è più sulla visione, mentre noi siamo più sulle proposte dettagliate».

 

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