A RIETI UNO SPAZIO DI ASCOLTO SU SESSUALITÀ E DISABILITÀ

È stato messo a disposizione dalla ASL, su iniziativa promossa dall'associazione ATEV e da CSV LAZIO

Nel 2018 i genitori di ragazzi con disabilità hanno chiesto alle istituzioni e alle associazioni di Rieti: «Non lasciateci soli!». Il tema era di quelli delicati e importanti: si parlava di affettività e sessualità nelle persone con disabilità. Per quei genitori era necessaria una risposta, avevano bisogno di uno spazio in cui parlare e confrontarsi. Alcune realtà associative di Rieti, allora, hanno promosso la costituzione del Forum Permanente sulla sessualità delle persone con disabilità e disagio mentale. Oggi, a tre anni da quel «Non lasciateci soli!», su Rieti c’è la possibilità di poter usufruire di uno spazio di ascolto su sessualità e disabilità, messo a disposizione dalla ASL di Rieti, su iniziativa fortemente promossa da Mariano Gatti dell’associazione ATEV e da CSV LAZIO. Gli incontri e le attività saranno gestite da Serena Nobili e Maurizio Musolino. Ne abbiamo parlato in un incontro in collegamento web su “Affettività e disabilità”, che si è tenuto lo scorso 19 gennaio.

Perché è nato lo spazio di ascolto su sessualità e disabilità

«Questo progetto nasce da una serie di riflessioni», ha raccontato Maurizio Musolino, referente progettuale per la ASL di Rieti. «Dentro il mondo dei sentimenti esiste un universo fatto di affetti, idee, categorie mentali. E tra queste, oltre all’affettività, c’è una dimensione sessuale. Non intendiamo l’atto fisico, ma tutto il mondo che intorno a questo sentimento viene a costruirsi. A questo abbiamo aggiunto un’altra riflessione. C’è una condizione che chiamiamo patologia, e a questa è associato un deficit funzionale. Dalla patologia si passa alla disabilità, e dalla disabilità all’handicap. Mentre il passaggio dalla patologia alla disabilità ha delle dimensioni ben definite, il confine che separa la disabilità dall’handicap è molto sfumato. Mentre la patologia è biologica, e la disabilità è funzionale, l’handicap è come la disabilità si confronta con le dimensioni sociali».

«È un progetto molto sfidante: lo affrontiamo come azienda sanitaria, ma soli non potremmo fare nulla» continua. «E non è un caso che oggi ci troviamo inseriti in una rete di contatti che il web ci sta offrendo. Intendiamo sviluppare questo progetto sia nei soggetti con disabilità, affrontando i singoli casi con diverse tecniche di empowement, sia in soggetti prima che insorga la disabilità».

Vivere la sessualità in modo appagante

La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 ha sancito, tra le altre cose, anche la pari opportunità per le persone con disabilità, che comprende, ad esempio, il diritto ad avere una famiglia. Ha rappresentato un cardine su cui sono stati costruiti i diritti di tutti i soggetti. Dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani sono passati 60 anni: in Italia le persone con disabilità sono all’incirca 3 milioni e 100mila; solo il 30% lavora e solo il 45% può beneficiare di una rete sociale. «Si tratta di riconoscere l’importanza della sessualità nella vita di tutti noi. È una modalità di relazione con gli altri che ci accompagna durante tutta la vita», riflette Serena Nobili dell’ASL di Rieti. «È un lungo viaggio di crescita e cambiamenti, che non dovrebbe essere negato né sminuito. Spesso le persone disabili vengono considerate come asessuate, e gli stessi genitori nelle famiglie hanno difficoltà a parlare di sessualità con i propri figli. Bisogna prima di tutto iniziare a parlare, far circolare tra le persone l’idea che le persone con disabilità possano vivere la sessualità in modo appagante. E creare spazi appositi».

Promuovere un cambiamento culturale

Ma come possiamo garantire le pari opportunità rispetto alla sessualità? «Prima di tutto riconoscere l’importanza della sessualità nella vita di tutti noi, commenta Serena Nobile. «Se oggi guardiamo la sessualità da un punto di vista sistemico, possiamo dire che rappresenta una modalità di relazione con gli altri che inizia con l’infanzia, quando il bambino si relaziona con i genitori, fino all’adolescenza, quando si fanno i conti con il proprio corpo, e all’età adulta, quando si tratta di cercare un compagno e dare vita a una famiglia».

Come affrontare allora la sessualità nei soggetti disabili e con le loro famiglie? «Bisogna iniziare a parlare, prima di tutto, per promuovere un cambiamento culturale», spiega la dottoressa. «Cominciare a far capire a tutti che le persone con disabilità possono vivere la loro sessualità, e farlo in modo appagante. Con un lavoro di rete, che comprenda famiglie, scuola, ASL, comune e associazioni». L’ASL di Rieti ha deciso di supportare le persone con disabilità e le loro famiglie realizzando uno spazio apposito, uno spazio di ascolto sull’affettività e la sessualità nella disabilità. «Tra gli obiettivi ci sono quelli di promuovere la salute e il benessere individuale, realizzando percorsi individuali che tengano conto delle differenze di ognuno, realizzare interventi di educazione alla sessualità che permettano di conoscere il proprio corpo, ridurre ansia e imbarazzo e incrementino l’autostima».

Parlare senza essere giudicati né derisi

Sotto le categorie disabilità e sessualità esiste un mondo, tante differenze tra di loro, tante caratteristiche, tanti handicap diversi da interpretare. «C’è una complessità incrementata dal fatto che ci sono tanti modi di interpretare la sessualità e le relazioni intime», ha spiegato Lelio Bizzarri, psicologo e psicoterapeuta. «Questo concetto di base serve non tanto per dire chi può fare cosa, quanto a personalizzare gli interventi: ognuno ha dei desideri e delle risorse. Prima di tutto serve conoscere chi si ha di fronte – quali sono limiti, risorse, desideri e bisogni – e proporre qualcosa di personalizzato, fermo restando che ci sono aspetti che sono universali, come la tendenza a costruire relazioni e a connotarle in senso affettivo, relazionale, intimo e anche sessuale. L’approccio deve quindi essere bio-psico-sociale: culturale, biologico e psicologico».

Cosa accomuna tutte le persone disabili? «Tutte le persone disabili si confrontano con una cultura che è stata definita con il termine “abilismo”, concetto un po’ stereotipato secondo il quale le persone che non hanno handicap sarebbero migliori di quelle con handicap, o che lo stile di vita considerato più pregevole possa essere quello di chi non ha handicap», ragiona lo psicologo. «Questo ha ricadute molto forti: a volte quindi si pensa che non valga la pena investire nella sessualità per persone che non possono adeguarsi a un modello di normalità, in cui è previsto avere rapporti completi, o la possibilità di procreare». «L’identità di qualsiasi individuo non può essere costruita in maniera fisiologica se non vengono integrati anche gli aspetti di sviluppo psicosessuale» aggiunge. «Immaginate un adolescente che vive una serie di modificazioni corporee che, non avendo informazioni adeguate dal punto di vista sessuale, potrebbe avere problemi, e la sua identità frammentarsi».

«Quello di cui c’è bisogno è uno spazio in cui le persone si possano esprimere o parlare senza essere giudicati né derisi, dove la persona possa crescere da un punto di vista psicologico», spiega Bizzarri. «Vivere relazioni può anche portare problematiche: ci si confronta con una realtà che può non rispettare le aspettative, in cui si possa arrivare a capire che sono incidenti di percorso che possono capitare ed evitare che una persona poi possa pensare ossessivamente alle delusioni, come è possibile riscontare spesso in persone che hanno deficit di tipo cognitivo».

Chi fosse interessato allo spazio di ascolto su sessualità e disabilità, può contattare la dottoressa Serena Nobili: tel.  338.1584929; e mail serena.nobili@asl.rieti.it

Se avete correzioni o suggerimenti da proporci, scrivete a comunicazionecsv@csvlazio.org

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