DISPERSIONE SCOLASTICA: PER COMBATTERLA IL TERZO SETTORE È NECESSARIO

Quasi il 18% dei ragazzi abbandona gli studi troppo presto. Serve una strategia tra scuola, famiglia, non profit ed ente locale

di Claudio Tosi

La dispersione scolastica è uno degli scogli più forti all’integrazione e un indicatore potente del futuro percorso di successo o emarginazione dei giovani.
Ne abbiamo discusso il 20 gennaio scorso in occasione della presentazione di: “LOST-Dispersione scolastica: il costo per la collettività e il ruolo di scuole e terzo settore”, ricerca nazionale realizzata con particolare riferimento a quattro città (Milano, Roma, Napoli e Palermo) per indagare quanto è grave e quanto costa questo fenomeno al nostro Paese. La ricerca della Fondazione We world, Fondazione Agnelli e Associazione Bruno Trentin ci conferma un dato purtroppo conosciuto e molto penoso rispetto al tasso di dispersione scolastica presente nella scuola italiana, che stenta ad avvicinarsi agli obiettivi dell’Unione Europea per il 2020. D’altro canto ci dice di scuola e terzo settore impegnati a fondo per affrontare la questione e, forse per la prima volta, indaga a fondo anche sui costi di questo impegno.
«La dispersione scolastica in Italia ha dimensioni allarmanti. Con il 17,6% di ragazzi che abbandonano gli studi, l’Italia è in fondo alla classifica europea la cui media è pari al 11,9% , e continua a scontare un gap con gli altri Paesi, come ad esempio la Germania dove la quota è sensibilmente più bassa (9,9%), o la Francia (9,7%) e il Regno Unito (12,4%). Un divario che aumenta se guardiamo al Sud ed alle Isole, dove vi sono regioni ben lontane dalla media europea (Sardegna 25,5% – in aumento, Sicilia 24,8%, Campania 21,8%, Puglia 17,7% – in aumento). Il problema è comunque nazionale; tra le regioni in cui i ragazzi completano gli studi troviamo il Molise (solo il 10% di abbandoni), tra quelle invece in cui il successo formativo rischia di divenire un miraggio la Valle d’Aosta (21,5%). La crisi economica rischia di compromettere i passi in avanti fatti dal 2000, quando gli early school leavers (coloro che abbandonato precocemente la scuola, secondo al definizione in uso in Europa per la dispersione scolastica) risultavano il 25,3%. L’Italia è tuttora lontana dagli obiettivi della strategia di Europa 2020 nel campo dell’istruzione che prevedono una riduzione del tasso di abbandono scolastico al di sotto del 10%.»

A Roma c’è più rete

La presentazione nella sala della Piccola Protomoteca in Campidoglio ha discusso  i dati della ricerca con particolare riferimento alla situazione di Roma, dove esiste e opera un ricco e ponderoso scenario di attori che, in maniera istituzionale, non formale e volontaria si sono organizzati per agire sui territori più scoperti e può costituire un rilevante punto di partenza, a partire dalle scuole stesse.
Abbiamo chiamato a confrontarsi sui dati presentati i rappresentanti delle reti del volontariato come Scuolemigranti, attiva per l’inclusione degli stranieri con l’insegnamento dell’italiano L2; la rete dei Centri di Aggregazione giovanile diffusa in tutto il territorio con funzione di prevenzione e recupero; i progetti di mediazione sociale; i movimenti educativi che hanno approfondito l’utilizzo dei metodi dell’educazione attiva come Cemea e MCE, le scuole di ogni ordine e grado che aprono le loro porte al territorio e attivano la cittadinanza e la solidarietà vicinale, i centri di formazione professionale, il sistema di educazione degli adulti, le forze sindacali, e l’Università.
I contributi hanno evidenziato che non siamo davanti ad “una emergenza”, ma a un dato strutturale di sistema e che solo un’azione sinergica di tutte le forze coinvolte può arrivare ad un risultato. Se l’obiettivo è il cambiamento dei destini educativi delle fasce più fragili e degli stranieri che ormai stabilmente frequentano (e vivificano) il nostro sistema scolastico, quello che serve è un reale cambiamento della capacità di accoglienza, delle metodologie educative e didattiche, del clima complessivo del sistema dell’Istruzione.
Graziella Conte dell’MCE e Annamaria Berardi dell’Arciragazzi hanno ricordato il ruolo delle scuole popolari e l’apporto dei movimenti educativi per una scuola che accolga i diversi linguaggi e permetta un migliore coinvolgimento e riuscita di chi ha difficoltà con la pura lingua scritta, auspicando una formazione congiunta tra scuola ed extrascuola, che “apra” alla città, consapevole della sfida dell’educazione al quotidiano.

No alla pedagogia della taglia unica

Fiorella Farinelli della Rete Scuolemigranti ci ha descritto con grande forza il costo nascosto della dispersione occulta e delle ripetenze (più funzionali al mantenimento dell’organico che al successo formativo degli studenti) denunciando il fallimento dei grandi progetti nazionali, che necessiterebbero di un intervento deciso del Miur di monitoraggio sui contenuti educativi e non solo sugli aspetti formali.
Da più parti è emersa la questione dei compiti a casa, che trasferisce sulla famiglia la responsabilità dell’aiuto allo studio, contribuendo ad accentuare il divario tra chi ha un background forte e chi invece si trova solo e a rischio.
Alessandro Iannini del Borgo don Bosco, che accoglie stranieri, italiani e Rom in un percorso di seconda opportunità e professionale, parla del fallimento della “pedagogia della taglia unica” e della necessità di adattare l’insegnamento agli studenti e mantenere un dialogo aperto con le famiglie (dove spesso manca il padre).
La Rete dei centri di Aggregazione Giovanile rinforza la nozione di prevenzione e di apertura della scuola al quotidiano dei giovani, spesso impostato su canali comunicativi alternativi se non osteggiati dalla scuola stessa.
L’esperienza delle Scuole Aperte riportata dall’esponente della scuola Di Donato, esperienza ricca di attività e risultati con un coinvolgimento progettuale delle famiglie, mostra la difficoltà per gli studenti di ritrovare un protagonismo e una capacità di parola in una scuola spesso avvertita come passiva e gerarchica.
L’Arci riporta l’esperienza di rete nazionale sui “drop-out” presa a modello della strategia 2020 sulla dispersione, con metodi di peer education e tutoring. Confrontarsi tra modelli ci aiuterà a fare sistema.

Fabrizio Da Crema, responsabile istruzione Cgil Nazionale, ha detto che è necessario investire in maniera convergente, che sono necessarie politiche nazionali di investimento e l’integrazione di risorse per rinforzare decisamente la scuola dell’infanzia e sviluppare coerentemente l’educazione permanente, per mantenere flessibili e aggiornate le competenze sviluppate. Per agire insieme serve che ci sia un Piano per indirizzare gli interventi, confrontare i risultati, sviluppare modelli di intervento migliori.

Il vero problema è la sofferenza scolastica

Secondo Piero Lucisano, dell’Università La Sapienza, la dispersione scolastica è un epifenomeno di una “sofferenza scolastica” che coinvolge l’intero apparato e che forse quel 20% che sceglie di andarsene ha più capacità reattiva di chi ci resta. I nostri dirigenti attuali sono “i nostri studenti” e non dimostrano una “capacità di studiare”, che è sempre capacità di collegare il passato al presente, per evolverlo e ricordarlo. «Ragionare sul valore economico della dispersione rischia di volgarizzare elementi valoriali e affettivi, che non possono essere limitati a questi parametri», sostiene Lucisano, «ma quando parliamo di produttività, se non esoneriamo dall’indagine i “costruttori dei contesti”, ne ricaviamo interessanti riflessioni. Il Terzo settore può aiutare a cambiare prospettiva, dire che le passioni i giovani le vivono, raccontare come si applicano nella loro ritrovata progettualità, cercare di ritrovare un filo tra trasmissione e elaborazione». Questo, tra l’altro, «ci permetterebbe di evitare di insistere con un sistema che toglie passione e fa sentire inadempienti e inadeguati coloro che non riescono ad adattarcisi». Cambiare l’impianto non significa buttare tutto, ma cominciare a ricostruire un senso di congruità tra piacere di insegnare (fatto di valori, stabilità, condizioni di funzionamento adeguate) e voglia di imparare (composta da pratica, curiosità, capacità di indagine, possibilità di interazione e espressione di pensiero divergente, ecc.)

Gli enti locali per un’azione congiunta

Elisabetta Salvatorelli, dell’Assessorato Politiche Educative e Scolastiche, ha sottolineato come già si stia lavorando sull’idea di scuola bene comune, come luogo di aggregazione per il territorio aperto al territorio, con responsabilizzazione degli studenti, costruito insieme con tutte le componenti.
Mario De Luca dell’Assessorato alle Politiche Sociali ha registrato la necessità di una maggiore presenza politica dell’Ente Locale in questo dibattito sul contrasto alla dispersione scolastica, che ridia corpo al dettato Costituzionale. «Ci sono oggi le consapevolezze per ricalibrare l’azione che, pur avendo avuto il Piano Infanzia e Adolescenza fin dal 1999, ci faccia marciare verso un Piano Strategico dei Diritti e sviluppare un’azione congiunta cui partecipino Famiglie, Enti, Terzo Settore e Ente Locale promossa insieme dai due Assessorati».
L’incontro si è chiuso con queste due prese di posizione strategiche da parte dei rappresentanti degli assessorati: è un elemento di grande interesse perché proprio le politiche pubbliche possono giocare un ruolo cruciale nel miglioramento dei risultati di questa grande profusione di energie e innovazione educativa e didattica. L’amministrazione, con una sinergia inedita e fruttuosissima tra politiche sociali ed educative può incidere su questo tema della dispersione scolastica, che è sempre anche e soprattutto dispersione di cittadinanza.

DISPERSIONE SCOLASTICA: PER COMBATTERLA IL TERZO SETTORE È NECESSARIO

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