DANIELE MENCARELLI. AUTISMO: SE L’AMORE PER UN FIGLIO DIVENTA ALTRO

Nel suo Fame d’aria Daniele Mencarelli parla di autismo. E lo fa raccontando lo sfinimento e il senso di solitudine dei genitori che si trovano ad accudire i loro figli nello spettro autistico senza alcun aiuto

di Maurizio Ermisino

“Ma che ha?” “È autistico a basso funzionamento, bassissimo. Significa che non parla, non sa fare nulla, si piscia e si caca addosso”. È il dialogo tra Pietro, padre di un figlio con autismo, e Oliviero, un meccanico. Ma è una frase che Pietro, ormai abituato a certe domande, è solito dire, in modo da chiudere subito la conversazione. Dopo quel modo così tranchant di definirlo, nessuno ha più niente da dire. Pietro, senza farsi sentire dagli altri, chiama suo figlio lo “Scrondo”, come il mostriciattolo inventato da Stefano Disegni per una trasmissione di Italia 1. E non è certo un nome affettuoso. Sono le prime cose che ci colpiscono di Fame d’aria (Mondadori, 2023), il nuovo romanzo di Daniele Mencarelli, autore del libro Tutto chiede salvezza, da cui è stata tratta la serie Netflix diretta da Francesco Bruni. Un libro spiazzante e illuminante, che, per la prima volta, non parla di autismo in termini consolatori, ma del dolore e della rabbia dei genitori, della loro solitudine, del senso di abbandono che provano. È un libro che alza il velo su un mondo molto difficile. Pietro Borzacchi sta viaggiando con il figlio Jacopo quando, d’un tratto, la sua macchina si ferma. Un meccanico, Oliviero, li soccorre e porta l’auto a riparare nel suo paese, Sant’Anna del Sannio in Molise. Quando Jacopo scende dall’auto, è evidente che ha qualcosa che non va: lo sguardo è vuoto, il passo è caracollante, la mano sinistra che continua a sfregare sui pantaloni, all’altezza della gamba. È come vuoto, un corpo vuoto, dondolante. Jacopo è un ragazzo con autismo a basso funzionamento, una condizione che ha portato Pietro e la sua famiglia in una condizione di difficoltà economica. Ma non solo, ha portato Pietro a una sorta di disamore verso il figlio. Daniele Mencarelli, con Fame d’aria, fa un lavoro straordinario. Nel tracciare il ritratto di Pietro riesce a disegnare un personaggio negativo, incattivito. Del quale, però, riesci a capire le ragioni, e con il quale riesci anche ad empatizzare. Mencarelli fa il ritratto eccezionale di un uomo che porta in sé tanti tratti di una generazione particolare, quella degli attuali cinquantenni, in cui tanti si possono identificare e racconta un dolore che lo ha cambiato, una solitudine che lo ha reso arido, abbandonato, incompreso da tutti. «Questi uomini e donne magari sono abbandonati a se stessi, con una disabilità in casa da 30, 40 anni» ci spiega l’autore. «E lì impazzisci. L’idea dell’uomo con risorse infinite fa sempre comodo al potere».

Fame d’aria è il suo primo libro non autobiografico. Come è stato immaginare la vita di un altro uomo, e metterci comunque qualcosa di sé?

Daniele Mencarelli
Fame d’aria è il nuovo romanzo di Daniele Mencarelli, autore di Tutto chiede salvezza

«Passare da tre romanzi in cui le vicende appartenevano alla mia memoria, ai miei ricordi, a questo romanzo di invenzione non è stato tanto difficile dal punto di vista formale. Per quanto riguarda la scrittura, un certo tipo di gioco tra momenti più lirici e più discorsivi, l’evoluzione è stata simile ai tre romanzi precedenti. Il grande distacco è stato il ribaltamento di punto di vista: non più il racconto di un figlio, di un ragazzo che racconta la gioventù – una fase a cui agli individui è permesso di sbagliare, di essere più turbolenti – ma il racconto della generazione dei padri. Credo che la nostra, di quelli nati a metà degli anni Settanta, sia una generazione di padri e madri particolarmente fragile. Abbiamo vissuto l’infanzia nel momento di maggiore esplosione di consumi, negli anni Ottanta, e ora siamo spesso più fragili dei nostri figli. È stato devastante in certi momenti calarmi in un uomo che ha trasformato l’amore in qualcosa che amore non è più. È astio, rabbia sociale, rancore verso quelli che non sono corsi in suo aiuto».

Ha scelto di parlare di autismo. Come ha conosciuto il tema?

«Credo che in ogni scrittore, anche quando la storia è di invenzione, anche quando viene tutto traslato dentro personaggi costruiti ad arte, il vissuto faccia sempre capolino. Io sono genitore di un figlio che per tanti anni ci ha fatto vivere – per fortuna con una parabola meno drammatica – i reparti di neuropsichiatria infantile. Questa è stata la grande immersione in un tema che non viene mai narrato nella sua drammaticità, ma neanche nella sia quantità: in Italia ci sono 700mila famiglie che convivono con l’autismo ad alto o basso funzionamento. Definizioni che al proprio interno contengono una nebulosa enorme, come sanno bene neuropsichiatri e genitori. Da una parte questo mi ha dato quel contatto, quell’esperienza, quella conoscenza che hanno tutti quelli che quella conoscenza non la vorrebbero mai avere. La vita è così quando ci pone di fronte alla malattia di un nostro caro o noi. Questi 12 anni mi hanno premesso di mettere a fuoco il macro tema. La storia in sé è nata un giorno di sei anni fa, una mattina piovosa di novembre, quando in mezzo a una strada ho incontrato un Pietro, un uomo che aveva quel livello di stanchezza, di totale privazione di qualsiasi sentimento apparentemente costruttivo. E da lì ho costruito questa figura, che ho dovuto vivere per scriverla. Certe cose nel momento in cui le scrivi ti ci devi immergere, a prescindere dal fatto se le hai vissute o meno».

Fame d’aria alza il velo su un mondo molto difficile, ed è rivoluzionario…

«È che oggi l’autismo, ma il tema della salute in generale, è quella linea di confine drammatica che divide ricchi e poveri. L’autismo è sempre grave e non auguro a nessuno di viverlo, né da genitore né da individuo. C’è un immaginario scarno, assente rispetto all’autismo a basso funzionamento: viene narrato solo l’autismo ad alto funzionamento, ma c’è una quota enorme di ragazzi che diventeranno gli adulti di domani che sono a basso funzionamento. Ed è già tanto se con la comunicazione aumentativa riusciranno a comunicare i loro bisogni primari. E questa fascia più grave di questo disturbo non c’è, non viene raccontata. Quando abbiamo a che fare con un disturbo dello spettro autistico a basso funzionamento, di livello 3, la gravità del disturbo impatta fortemente sul tenore economico della famiglia. In Italia tutto ciò che riguarda i disturbi del neurosviluppo, a parte la diagnosi, è a pagamento. A parità di condizione, la famiglia monoreddito, uno come Pietro che paga un muto, è un uomo viene messo in ginocchio dalla malattia. La domanda che mi sono fatto è: perché raccontarlo in una declinazione così severa, arrabbiata? Perché, pensavo, in fondo è un caso limite. È da 5 mesi che è uscito il libro e che giro l’Italia e ho conosciuto non uno, ma centinaia di Pietro. E centinaia di madri disperate tanto quanto Pietro. Da nord a sud l’Italia è terribilmente unita, l’autismo spacca in due e fa tornare prepotentemente il fatto che una famiglia con autismo al di sotto di un certo ceto rischia di andare incontro a una devastazione umana, morale, psicologica ed economica».

Pietro chiama il figlio lo “Scrondo”, lo tratta male. E sfata un tabù che si fa fatica a dire: che un padre possa non amare un figlio che non gli somiglia o con cui non riesce a comunicare…

«Io penso che Pietro sia un uomo provato dagli eventi, che, per una serie di cause sue interiori, non è riuscito a elaborare il disturbo del figlio; che, anche per una serie di concause esterne, ha visto il proprio amore diventare qualcos’altro. È diventata stanchezza, una sorta di devastazione che non lascia più alcun tipo di speranza alla speranza. Io, lo dico sempre, avendo vissuto il tema su di me, sono un uomo che non può permettersi la disperazione, che deve credere alla possibilità dell’umano e della risalita. Ma questo non vuol dire che tutti riescano a sperare e a risalire. Va anche raccontato chi non ce la fa. Altrimenti rischiamo di edulcorare sempre e mal rappresentare quelli che, in determinate condizioni, soccombono, vanno giù. Alla fine del libro, nei ringraziamenti, scrivo: “a chi è andato giù”. Quel concetto, e torno a questo tema che fa comodo alle nostre istituzioni centrali, delle famiglie con disabilità come famiglie di eroi non esiste. L’eroismo è un concetto che lascio volentieri alla retorica che riguarda spesso la guerra, dove serve per nascondere gli orrori. Queste sono famiglie che vivono in una condizione che chiede solo aiuto. Una domanda che farò all’incontro con famiglie di questo tipo a cui sto per andare è: “anche l’amore di noi genitori si alimenta? Quali sono gli alimenti del nostro amore?” Anche l’amore va alimentato. C’è l’idea che l’amore sia inesauribile: l’amore resta come sentimento, è qualcosa che aspira a non avere fine. Ma se poi, per condizioni interne – psicologiche – ed esterne – materiali ed economiche – da nessuna parte troviamo qualcuno o qualcosa che ci corre in soccorso, è difficile che l’amore sia inesauribile».

Nel libro Pietro parla anche delle associazioni che possono aiutare le famiglie. Che cosa ne pensa?

«Gli Enti di Terzo Settore, il volontariato, l’associazionismo, sono quelli che, in questo momento storico, salvano il nostro Paese; che, a dispetto di tante mancanze, hanno questa capacità di iniziativa, spesso di singoli individui, che si costituiscono in rete e vanno a colmare le lacune delle istituzioni. Ma anche questo crea delle disuguaglianze. Ho intervistato lo chef Bottura che ha creato Il Tortellante a Modena, una struttura dove lavorano i ragazzi con autismo e ci sono gli appartamenti dove possono abitare. Il problema è che queste strutture sono fattibili dove c’è un certo tipo di ricchezza diffusa. Dove non c’è, ci sono associazioni che comunque tentano di lavorare, ma se non hai fondi sei Don Chisciotte. È una battaglia che sai che perderai, ed è drammatico il fatto che manchi una risposta più ampia a un tema che da qui a vent’anni sarà una grande problema. Abbiamo un tasso di natalità all’1,2%, un tasso di sopravvivenza della specie al 2,5%. Siamo un popolo che sta morendo. E in questo popolo che sta morendo, che sarà numericamente inferiore, avremo centinaia di migliaia di adulti che avranno un funzionamento diverso e non diventeranno forza lavoro come la intendiamo. E tutto questo deve da oggi iniziare a creare delle premesse per non farci trovare impreparati da qui a vent’anni. Ma questo è un Paese che vive di presente. L’adulto a basso funzionamento sviluppa aggressività, autolesionismo. Avrà bisogno di strutture. In Italia abbiamo una legge sul dopo di noi che sta lì, che non viene attuata».

Un altro aspetto del libro è quello economico…

«Se avviciniamo il tema della disabilità a quello della condizione economica del nostro Paese, entriamo in un territorio enorme in cui la disabilità non fa che aggravare quella quota enorme di nuove povertà che non interessano a nessuno. Tutte le forme che esistono per dare sostegni alle famiglie spesso vengono attribuiti con strumenti imprecisi. Nel libro parlo dell’ISEE, di questo redditometro che non riesce a cogliere il sommerso. L’Italia ha una quota di sommerso enorme. La grande domanda è: come riformulare, attraverso strumenti nuovi per intercettare nuove e vecchie e nuove povertà, un Paese in cui la quota di anziani sarà sempre più alta e avremo come popolazione adulta più giovane tanti ragazzi che continueranno a chiedere aiuto? Questo ha un costo sociale, e prevede denaro, fondi, strutture. La psichiatria in Italia prende il 3% della quota sanitaria complessiva; la neuropsichiatria o psichiatria infantile, di quel 3% prende uno 0 virgola qualcosa. Sono cifre irrisorie rispetto alla grandezza di quello che accade. E sono le famiglie che devono colmare queste enormi mancanze a cui lo Stato non pensa. È un tema che, da qui a 10 anni, sarà il grande tema di questo Paese».

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Fame d'ariaDaniele Mencarelli
Fame d’aria
Mondadori, 2023
pp. 180 , € 19

DANIELE MENCARELLI. AUTISMO: SE L’AMORE PER UN FIGLIO DIVENTA ALTRO

DANIELE MENCARELLI. AUTISMO: SE L’AMORE PER UN FIGLIO DIVENTA ALTRO