GREEN BORDER: IN BIANCO E NERO TRA LE PIEGHE DELLE MIGRAZIONI

Green Border, di Agnieszka Holland, al cinema da oggi, 8 febbraio: racconta le migrazioni da molti punti di vista, svelando il dualismo della nostra Europa

«Ci trattano come palloni da calcio» dice uno dei personaggi di Green Border, il film di Agnieszka Holland che è stato presentato in anteprima, in concorso, alla 80ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove la regista Agnieszka Holland ha ricevuto il Gran Premio Speciale della Giuria, e che ora arriva al cinema da oggi, 8 febbraio. Sì, quei migranti che, dalla Siria e dell’Afghanistan stanno cercando di entrare in Europa, vengono trattati proprio così, rimpallati da una parte all’altra del confine tra Bielorussia e Polonia, senza che possano capire niente, e, cosa ancora più grave, senza conoscere le cause politiche dietro a tutto questo. Green Border racconta la storia di una famiglia di rifugiati siriani, un’insegnante di inglese solitaria dall’Afghanistan e una giovane guardia di frontiera che si incontrano sul confine polacco-bielorusso durante l’ultima crisi umanitaria innescata dal presidente bielorusso Alexander Lukashenko. E quella di un gruppo di volontari che cerca di soccorrere i profughi che rischiano di morire nel “confine verde”. Con le sue immagini in bianco e nero, a loro modo spietate, reali ma anche simboliche, Agnieszka Holland dà vita a un film crudele e lucido allo stesso tempo, per come, attraverso un mosaico di vite, racconta tutti i punti di vista e tutte le questioni in ballo in una storia come questa, che è simile a centinaia di altre storie. Ci racconta quello che nessuno ci racconta. E, soprattutto, nessuno ci spiega.

Un viaggio duro e doloroso

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Green Border è un mosaico,  un grande film che si muove negli anfratti che non si vedono nelle frettolose notizie di cronaca che ci arrivano. Scompone la storia in capitoli, in frammenti, per poi ricomporli in un epilogo ancora più beffardo e doloroso

All’inizio del film siamo su un aereo delle linee aeree turche. Siamo sorpresi a vederli lì. È un modo molto diverso di rispetto ai barconi ai quali siamo abituati. Un gruppo di persone stanno scappando dalla guerra in Siria e dall’Afghanistan. Quella famiglia siriana sogna la Svezia, ma prima dovrà atterrare in Bielorussia, raggiungere la Polonia, e poi finalmente prendere la direzione della Scandinavia. Guardando i loro volto ci colpiscono le espressioni piene di speranza, di sollievo, di gioia. Ma, una volta toccato terra, e preso un passaggio in macchina, si scontrano con la dura realtà. Al primo posto di blocco gli vengono chiesti subito dei soldi, 300 dollari. Arrivano degli spari, e sono costretti ad attraversare il confine strisciano sotto un filo spinato. I bambini piangono. Gli anziani devono correre. Ma fanno fatica. Capiamo subito che il viaggio sarà molto diverso da quello che si aspettavano.

Non sono persone, sono armi di Putin e Lukashenko

Quello che arriva da film è il continuo senso di precarietà, di spaesamento. È come essere in balia del vento. Ti trovi a dover scendere da un mezzo, poi a salire su un altro. Ti dicono che sei fortunato, che ti porterà a destinazione. Ti devi fidare. Ma non hai idea di dove andrai. È l’altro lato delle migrazioni. A quel festival di Venezia dove veniva presentato Io capitano, e il viaggio dall’Africa alla Libia e attraverso il Mediterraneo, c’era anche Green Border, che racconta un altro viaggio, attraverso la terra, un’altra rotta vicina alla nota Rotta Balcanica. Qui non si rischia di morire in mare, quel mare spinato di cui parla Piobbichi, ma si trova un vero filo spinato. E, soprattutto, una difesa a spada tratta (o meglio, a fucili spianati) di quella che è stata chiamata la Fortezza Europa. Difesa da guardie i cui comportamenti sono ben oltre il limite dell’umanità. Quello che ci colpisce di loro è la cattiveria gratuita, il godimento nel fare delle cattiverie alle persone. Come rompere i thermos e così far bere alla gente il vetro, svuotare le loro provviste d’acqua, distruggere i telefonini, tormentarli con continue percorse. Quando guardiamo la storia da un altro punto di vista, nel secondo capitolo del film, capiamo perché. I poliziotti vengono indottrinati, plagiati, manipolati da un addestramento che è pura propaganda. “Non sono persone, sono armi di Putin e Lukashenko” dice loro il superiore che li sta formando. Dice loro che si troveranno davanti i terroristi, che portano armi e materiale pedofilo.

Tanti punti di vista; i migranti, le guardie, gli attivisti

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Agnieszka Holland

Green Border è un mosaico, una storia raccontata da tanti punti di vista. Ci sono i migranti, le guardie, gli attivisti, cioè la solidarietà, chi si toglie le proprie scarpe e le dà a chi ormai ha distrutto le sue. C’è la storia di una donna che sente il bisogno di aiutare queste persone e si ritrova suo malgrado a diventare un’attivista, pagandone anche le conseguenze sulla propria pelle. Green Border è un grande film perché, per la prima volta, mostra tutti gli aspetti della questione, si muove tra le pieghe dell’evidenza, negli anfratti che non si vedono nelle frettolose notizie di cronaca che ci arrivano. Scompone la storia in capitoli, in frammenti, per poi ricomporli alla fine e dare il senso a tutto in un epilogo che rende tutto ancora più beffardo e doloroso. Il bianco e nero con cui Agnieszka Holland gira questa storia è una scelta molto particolare. È spietato, impietoso. Eppure in qualche modo sembra astrarre il racconto da una forma che potrebbe essere vicino al documentario, per rendere questa storia di archetipica, e simbolica. Una versione moderna di una favola dei Fratelli Grimm, con le persone perdute in un bosco spaventoso. E, allo stesso tempo, un modello di una situazione che in questi anni si è ripetuta, centinaia e centinaia di volte, sempre uguale.

La propaganda di Lukashenko

«Dopo la Seconda Guerra Mondiale, i Paesi occidentali hanno compreso che il diritto di asilo doveva essere un diritto umano fondamentale per integrare società moralmente distrutte e rispondere alle sfide della disuguaglianza» ha dichiarato Agnieszka Holland. «Negli ultimi anni, il rispetto di questo diritto si è gradualmente eroso, fino a essere completamente ignorato dall’Unione Europea che si è trasformata in una sorta di fortezza, mentre i suoi nemici – come Putin e Lukashenko – usano la miseria dei rifugiati in fuga dai conflitti come una sorta di arma ibrida». Questa storia è così amara anche per questo. Come spiega la Holland nelle note di regia, nell’autunno del 2021, il dittatore bielorusso Lukashenko attirò sul confine bielorusso con la Polonia e la Lituania un’ondata di profughi provenienti da diversi Paesi (Afghanistan, Siria, Iraq, Yemen, Congo). La propaganda di Lukashenko aveva fatto credere loro che avrebbero potuto facilmente varcare il confine per ritrovarsi in quel paradiso ricco e democratico che, per le persone tormentate dalla guerra e dalla povertà, è l’Europa. Le autorità polacche, dimenticando di avere a che fare con degli esseri umani, li considerarono armi ibride e li dipinsero ai loro connazionali come una minaccia. Non erano persone, ma missili di Putin; erano terroristi, pedofili e degenerati. Le forze dell’ordine non si fecero quindi scrupoli a violare il diritto internazionale, e a catturare i rifugiati a respingerli in Bielorussia, dove trovavano l’inferno.

Il dualismo dell’Europa

Più di trenta anni fa Agnieszka Holland girò un film, Europa, Europa, che parlava di un ragazzo ebreo che, per sopravvivere all’Olocausto, aveva assunto prima l’identità di un giovane stalinista, poi di un soldato della Wermacht e poi di uno studente della Gioventù hitleriana, per poi un giovane nazista. Era il 1989 e il Muro di Berlino era appena caduto. Quel doppio titolo evocava il dualismo dell’Europa: da un lato la culla della cultura e della civiltà, dello Stato di diritto, della democrazia, dei diritti umani, dell’uguaglianza e della fraternità; dall’altro la culla dell’egoismo e dell’odio. «Nel 1989, l’anno della caduta del Muro di Berlino e della vittoria di Solidarność, sembrava che la prima delle due Europe stesse vincendo. Tuttavia ho sempre avuto la sensazione che il suo lato oscuro fosse solo rimasto sopito e potesse risvegliarsi in qualsiasi momento. Oggi, a trent’anni di distanza, ci troviamo di fronte a un analogo dilemma. Il vaccino dell’Olocausto ha smesso di funzionare e l’uovo del serpente è ormai maturo». Ancora oggi, molti rifugiati stanno vagando nei boschi al confine tra Polonia e Bielorussia; ancora una volta vengono torturati e lasciati morire. «Il comportamento delle guardie di frontiera polacche – le stesse che lasciano passare, con tenera compassione, i bambini ucraini oltre il confine – diventa di giorno in giorno più brutale. Questa differenza nel modo di trattare questi due diversi gruppi di rifugiati mette a nudo ciò che cerchiamo di nascondere: il nostro razzismo europeo».

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