Il lavoro sociale, senza indulgenze

In un volume a cura di Giulio Marcon luci e ombre di un mestiere difficile

Giulio Marcon, oggi eletto alla Camera come indipendente nelle liste di Sinistra e  libertà, è uno che il lavoro sociale lo conosce bene, avendolo praticato coordinando alcune importanti realtà italiane fra cui Lunaria, l’Associazione per la pace e la campagna Sbilanciamoci. Lo conosce così bene che in tempi non sospetti, ben prima del recente, e sovente fondato, “revisionismo” di alcuni autori, non ha lesinato critiche (L’ambiguità degli aiuti umanitari, Feltrinelli, 2002, Le utopie del ben fare, percorsi della solidarietà: dal mutualismo, al terzo settore, ai movimenti, L’ancora del Mediterraneo, 2004).
E anche questa volta, da curatore di Lavorare nel sociale, una professione da ripensare appena uscito nella collana dei libri dello Straniero di Goffredo Fofi (Edizioni dell’Asino), accantona l’indulgenza. Per sondare, attraverso un volume collettaneo che mette insieme i grandi protagonisti del lavoro sociale in Italia (dal fondatore della Lega italiana per la lotta all’Aids Vittorio Agnoletto, al “padre” della Comunità di Capodarco Vinicio Albanesi, passando per una delle guide della storica associazione romana Parsec Francesco Carchedi) le luci e le ombre di un operare comunque mai semplice, anche quando finisce di diventare “un lavoro come un altro”, come è in parte accaduto negli ultimi anni sull’onda dello sviluppo del settore.
Nato in un contesto e all’interno di un sistema di politiche sociali ben diverso da quello che si profila oggi, negli ultimi trent’anni ha subìto una mutazione importante che lo ha in parte arricchito e in parte per così dire standardizzato.
Arricchito perché, al netto della continua e progressiva erosione delle risorse destinate alle politiche sociali, alla quale stiamo assistendo e che rischia di metterlo in ginocchio, è entrato a tutti gli effetti nelle policy delle istituzioni, diventando una componente fondamentale del sistema dei servizi ed estendendone l’offerta.
Un processo importante ma non privo di opacità. Che hanno portato al proliferare delle  più disparate associazioni e microassociazioni in nome dell’accesso a canali di finanziamento e, nota Marcon, portato alcune di quelle più consolidate ad adagiarsi sulle leggi, sui finanziamenti, sui rapporti ambigui con la politica.
Standardizzato perché professionalizzandosi (cosa in sé tutt’altro che negativa e connaturata alla  modernità e allo sviluppo economico), si trasforma però spesso, e troppo spesso unicamente, in qualcosa di squisitamente tecnico: per ogni problema, a dispetto della autonoma capacità delle persone di fronteggiarlo da cui ogni operatore dovrebbe sempre partire e dove dovrebbe possibilmente arrivare potenziandola, c’è l’esperto che fornisce le risposte più appropriate.

Tra tecnica e umanità

Dice Marcon: «Abbiamo così, contemporaneamente, su vari fronti: la medicalizzazione del sociale (con la predominanza della dimensione sanitaria nella risposta alle sofferenze sociali), la professionalizzazione dell’umano (ogni aspetto della cura, della solidarietà e della compassione diventa oggetto di mercato e degli esperti) e la criminalizzazione della sofferenza (la riduzione del disagio sociale a problema penale: le carceri diventano il luogo privilegiato per controllare fenomeni difficili come l’immigrazione e le tossicodipendenze)».
Sicché se è vero che anche quello dei servizi è diventato a suo modo un mercato, la pura tecnica dell’esperto non esaurisce il ruolo e la mission del lavoro sociale che trova una sua importante ragion d’essere nella relazione: un pezzo dell’expertise e in molti casi uno dei motori del percorso verso l’autonomia di quanti fruiscono del servizio stesso. Insomma, per essere un buon operatore sociale la tecnica è una condizione necessaria ma non sufficiente.
E del resto, proprio perché in buona parte dei servizi alla persona l’obiettivo è rimettere le persone in grado di camminare sulle proprie gambe, quello dell’operatore sociale è, soprattutto ma non solo nei servizi alla persona, un mestiere difficile che richiede molte competenze.
Serve esperienza, distanza ma non freddezza, professionalità ma non solo tecnica, bravura senza autocompiacimento (il narcisismo fa guardare a sé e non all’altro), conoscenza di sé (un operatore sociale dovrebbe essere in grado di non sovrapporre le proprie esigenze personali  con quelle di colui di cui si sta occupando), capacità di ascolto, rifiuto del senso di onnipotenza che può spuntar fuori inopinatamente nella relazione di aiuto: in questo caso non c’è chi aiuta e chi è aiutato, ma la condivisione di un processo di emancipazione a cui l’operatore fornisce strumenti. La capacità di ascolto è fondamentale, un po’ di cultura non guasta.
Se si aggiunge che si tratta di un lavoro spesso malpagato, si capisce che non è un mestiere per tutti. E che proprio perché non è un mestiere per tutti oscilla sovente fra approssimazione e professionalismo.
Fare bene questo  lavoro non è facile, ma quando ci si riesce si è e si produce capitale sociale. Non è così frequente.

Giulio Marcon (a cura di)
Lavorare nel sociale, una professione da ripensare,
Edizioni dell’Asino, 2015.

 

 

 

 

 

(La foto in alto è di Maria Topputo)

 

Il lavoro sociale, senza indulgenze

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