LA CASA DI LEDA, PER I BAMBINI IN CARCERE CON LE MAMME

Nascerà a Roma, prima in Italia, la casa famiglia protetta che permetterà ai bambini di guardare le nuvole

«Quando i bimbi escono fuori dal carcere guardano le nuvole, e il mondo sotto le nuvole, con uno stupore che non smette di intenerirci». A parlare è Gioia Passarelli, presidente dell’associazione Roma insieme-Leda Colombini, che da oltre ventun anni lavora nel carcere romano di Rebibbia con le madri detenute e i loro figli, per fare in modo che quella infanzia non rimanga anche lei imprigionata dietro le sbarre di un istituto di esecuzione penale. Un ventennio dedicato a rendere migliore la vita dei bimbi che le madri detenute portano con sé. Con le attività nel nido di Rebibbia, con i laboratori di musicoterapia e di arte terapia, con i sabati di libertà, quando i piccoli vengono portati fuori dalle mura del carcere.

Con altre associazioni di volontariato e del Terzo settore che operano in questo ambito (Arca di Noé, Cecilia, Pid), Roma insieme ha risposto all’appello lanciato da Lillo Di Mauro, presidente della Consulta penitenziaria di Roma Capitale e ha condiviso e sostenuto il progetto che lo stesso Di Mauro ha elaborato per la realizzazione della prima casa famiglia protetta in Italia per mamme detenute e per i loro bambini: “La Casa di Leda”.

 Una legge inapplicabile

L’obiettivo, dice lo stesso presidente della Consulta penitenziaria di Roma Capitale, è quello, prioritario, di sempre, e cioè «tenere i bimbi fuori dal carcere» . E questo progetto è insieme il tentativo di arrivarci nel migliore dei modi possibili ma anche una provocazione che prova a mettere in moto un processo virtuoso, tale da suonare la sveglia a chi di dovere – ovvero chi legifera senza dare gas (si legga risorse) alle previsioni di legge – e farle sul serio, le case famiglia protette.

Il perché della provocazione lo spiega Di Mauro. Per quanto la legge numero 62 del 2011 le abbia istituite per gestire in modo adeguato il problema della detenzione di madri con i figli piccoli, la normativa che fa capo a quella legge e che include anche il decreto esecutivo del marzo 2013 «è nella sostanza inapplicabile, soprattutto perché, a fronte di criteri esigenti sul piano della qualità, non ci sono sufficienti fondi a disposizione».
La realizzazione delle case protette viene infatti demandata agli enti locali che, loro malgrado, in questi anni hanno assistito a una progressiva riduzione delle risorse in generale e di quelle destinate alle politiche sociali e carcerarie in particolare, cosa che non ha certo aiutato a realizzarle, queste strutture.

In tal modo, aggiunge di Mauro, «La legge 62 non ha neppure sciolto il nodo della presenza in carcere dei bimbi da zero a tre anni» (e anche più visto che ora si arriva anche fino ai sei-dieci anni a seconda dei casi). Perché se per i reati più gravi mamme e figli rimangono de iure in galera, per quelli meno gravi ci sono gli Icam, Istituti di custodia attenuata per detenute madri pure istituiti dalla legge 62 (al momento uno a Milano, uno a Venezia, uno a Cagliari e due in via di realizzazione a Torino e a Lauro, in Campania). I quali, però, anche se non prevedono sbarre alle finestre e la polizia penitenziaria non indossa la divisa, rimangono a tutti gli effetti delle prigioni nelle caratteristiche e nei modi.
È vero che gli Icam sono previsti in tutti quei casi in cui esigenze eccezionali impediscono il ricorso a misure cautelari più blande, mentre le case famiglia protette sono rivolte a chi ha accesso a pene alternative o è imputata per reati che consentono una custodia cautelare particolarmente attenuata. Ma una casa famiglia protetta è cosa ben diversa dal carcere.

 L’urgenza di trovare i fondi

Una svolta per i figli delle mamme detenute.
Tanto più che, dando un’occhiata allo scenario d’insieme, si parla di numeri molto piccoli. Perché se è vero che ai primi di febbraio di quest’anno i detenuti (italiani e stranieri) con prole erano 22.334, è altrettanto vero che le mamme in carcere non vanno mai oltre le 50-60 unità l’anno. I figli sono in genere poco di più. A Roma, per esempio, ci sono 12 mamme e 12 figli, tutti a Rebibbia. La moltiplicazione degli istituti a custodia attenuata, per quanto legata alla natura dei reati delle madri (che però ricadono direttamente sulla “istituzionalizzazione” dei figli) è antieconomica e non mette al centro la legittima e libera crescita dei bimbi.
In questo scenario si inserisce “La Casa di Leda”, casa famiglia protetta modello predisposta per sei madri o padri con relativi figli: spazi adeguati per il gioco anche all’aperto, lo studio, i colloqui, la socialità; progetti individualizzati per valorizzare il rapporto madre-figlio, sostenere l’equilibrio emotivo delle relazioni, sviluppare un piano di autonomia e reinserimento sociale delle detenute. Costo di gestione annuale fra i 250mila e i 300mila euro l’anno. Risorse che al momento il comune di Roma – e in realtà nessun comune – non ha, anche se l’assessore alle politiche sociali e alla casa della Capitale, Francesca Danese, ha già individuato due strutture da mettere a disposizione e ha assicurato il massimo impegno possibile per lo sviluppo del piano.

Per la ristrutturazione del luogo che verrà scelto, Di Mauro prevede di organizzare un fund raising. Ma per partire serve il cash. Il progetto c’è, ora serve la benzina per metterlo in moto.

LA CASA DI LEDA, PER I BAMBINI IN CARCERE CON LE MAMME

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