GUERRA TRA POVERI: QUESTA È L’ITALIA DI OGGI

Il cortometraggio di Kassim Yassin Saleh, è stato presentato ad Alice Nella Città, alla Festa del Cinema di Roma. Il regista: «Questo corto è pienamente in linea con i giorni di oggi»

di Maurizio Ermisino

“Siamo figli delle stesse strade, uguali anche senza la stessa madre” rappa Amir Issaa sui titoli di coda di Guerra tra poveri, il cortometraggio di Kassim Yassin Saleh, presentato ieri in concorso ad Alice Nella Città, la sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma. Ascoltiamo queste parole quando ci siamo resi conto di quello che vuole dire il corto, e anche dopo – e questa è la grande dote del film di Saleh – essere stati spiazzati e sorpresi più volte. Guerra tra poveri è infatti un’opera che vive su una lunga serie di ribaltamenti, una cosa eccezionale se pensiamo che dura qualcosa come 15 minuti, e passa attraverso le storie di tanti personaggi, cosa ancor più singolare per un cortometraggio. Attenzione: il ribaltamento è sì uno stilema in grado di colpire lo spettatore, ma è anche necessario per il messaggio che vuole dare il film. Cioè che l’odio, la paura esistono fino a che non veniamo “ribaltati” nella nostra visione, nel nostro punto di vista. Fino a che non ci vediamo allo specchio, o fino a che non andiamo proprio dall’altra parte di quello specchio e vediamo la realtà da lì dentro, con i nostri occhi. Guerra tra poveri è girato in uno scintillante bianco e nero, con la fotografia di un maestro come Daniele Ciprì, come omaggio al Neorealismo. Ma bianco e nero sono anche quella luce e quell’ombra che si alternano continuamente nel film; sono la speranza e la disillusione, la luce e il buio. Guerra tra poveri, realizzato da Ulalà Film, Maiora Film in collaborazione con Rai Cinema e con il contributo del Ministero della Cultura, distribuito da Tiny Distribution di Zen Movie, è la storia di una modesta famiglia italiana, una madre e due figli, che da un giorno all’altro riceve l’obbligo di sfratto ritrovandosi senza una casa. Siamo in una delle tante periferie, tutte uguali, di Roma, dove spesso l’intolleranza si confonde con l’ignoranza. Così i due fratelli verranno spronati dal cugino, un noto attivista di estrema destra, a farsi giustizia da soli e a riprendersi con la forza quella casa che è stata assegnata a degli stranieri. O almeno, così credono loro. Inizia così una discesa agli inferi, accompagnata da spranghe, pugni, odio. Ma, una volta sfondata la porta dell’appartamento, accade qualcosa.

Un film che nasce dalla cronaca

Guerra tra poveri
Siamo in una delle tante periferie, tutte uguali, di Roma, dove spesso l’intolleranza si confonde con l’ignoranza

Guerra tra poveri nasce dalla cronaca. «Stavo a casa e ho visto in tv la storia di un ragazzo del Bangladesh che è stato picchiato da alcune persone di estrema destra ed è finito in coma» ci ha raccontato il regista Kassim Yassin Saleh. «E ho pensato che una cosa simile non fosse possibile in Europa, dove si parla sempre di diritti umani. Ma la cosa più eclatante, che mi ha portato a scrivere la sceneggiatura è stato il fatto di Torre Maura, quella del sindaco Raggi e di una donna Rom con 11 figli che aveva diritto ad avere quella casa, e di tutto il quartiere che si è mobilitato per aggredire e sputare verso quella donna.  Ho detto: non c’è più umanità. Da lì nasce il film, arriva prima il titolo. Ho lavorato al corto con Heidrun Schleef, la sceneggiatrice de La stanza del figlio di Nanni Moretti».

Questa è la guerra tra poveri

Guerra tra poveri, cosa sorprendente per un corto, è pieno di personaggi, e passa continuamente il testimone, come in una staffetta, da un personaggio all’altro, svelando, insieme a lui, il suo punto di vista. «A casa mia, in Africa, in Somalia, c’era sempre una marea di parenti: per questo nei miei lavori ci sono tantissimi personaggi» ci racconta il regista. «Ho voluto raccontare una famiglia italiana povera: una donna che vive in casa con due figli, uno che sta insieme a una ragazza nera, un altro di estrema destra, violento e arrabbiato con gli stranieri. E la mamma che è senza aiuti. Ma quella casa che avevano occupato era una casa a cui non avevano diritto. Quando sfondano la porta, trovano una ragazza madre con cinque figli. È questa la guerra tra poveri».

Matteo, come il ragazzo di Torre Maura

Guerra tra poveri
Matteo è diverso dagli altri uomini della zona: non ha la testa rasata, ma capelli più lunghi, biondi, e al collo una cuffia per la musica

La famiglia al centro della storia ci viene introdotta in modo particolare. Prima di entrare nella loro casa abbiamo fatto la conoscenza del figlio minore, Matteo (Francesco Rodrigo Sirabella Sinigallia), che è diverso dagli altri uomini della zona: non ha la testa rasata, ma dei capelli più lunghi, biondi, e al collo ha una cuffia per ascoltare la musica. Lo abbiamo conosciuto nella prima sequenza quando, al parco, sta baciando la fidanzata, una ragazza di colore. E capiamo che non è come gli altri. È un ventenne dal volto gentile e luminoso che si ritrova adulto in un ambiente duro e senza pietà, un secondogenito cresciuto senza padre e con una madre che non riesce a sostenere le spese della famiglia «Avrei potuto fare una famiglia in cui tutti e tre erano di estrema destra, ma non avrebbe avuto luce, non avrebbe avuto speranza» ci spiega il regista. «Lui è più giovane del fratello, ragiona con la sua testa. E come il famoso ragazzino di Torre Maura (quello di “non me sta bene che no”, ndr). Ognuno può vedere quindici minuti a ragionare con la sua testa. Vorrei che anche chi è di estrema destra potesse vedere questo film».

Trovarsi davanti allo specchio

Guerra tra poveri ci ha già spiazzato più volte. Perché dopo aver visto Matteo con la ragazza di colore, lo abbiamo rivisto nel suo ambiente, che è completamente diverso da lui. Abbiamo conosciuto Manuel (Alessandro Sardelli), il fratello maggiore, di temperamento opposto, impenetrabile, arrogante e razzista, carico di rabbia, e con lui il suo punto di vista. E poi, nel finale, siamo stati ribaltati ancora due volte. «Quando i ragazzi sfondano la porta dentro pensano di trovare rom, neri, stranieri» commenta il regista. «Loro trovano una famiglia italiana, più povera di loro. Che fanno? Non possono menare loro stessi, sono davanti a uno specchio. È una cosa devastante, è ancora più tragico. Nadia, la ragazza madre, vede che sono poveri anche loro. Dice: in cucina c’è il portafoglio. Capisce che sono poveri, offre una crostata, un caffè. Loro capiscono che Nadia e i bambini sono più romani de loro». Cominciano così a socializzare, ed esce un velo di speranza. Ma, proprio all’ultimo, veniamo di nuovo gettati nell’inquietudine. «Quando l’uomo chiede al bambino per che squadra tifa, dicendo che lui è della Roma, il bambino dice “Lazio tutta la vita” e fa il saluto romano.  Questo bambino è l’unico maschio della famiglia, fa il saluto romano, perché segue la tendenza di chi vive nelle periferie di Roma. Questo corto è lo specchio del momento in cui vincono le destre, è pienamente in linea con i giorni di oggi».

Un omaggio al Neorealismo

Guerra tra poveri
“Che ci fa Buddha in mezzo alla Madonna e Gesù Cristo?” chiede uno dei ragazzi. “Più so mejo è”, risponde la donna. “Almeno qualcuno mi ascolta”

Prima di arrivare al finale, Guerra tra poveri ci regala una delle battute più belle, quando i due ragazzi e la madre vengono ospitati da una signora, che vive in un garage. “Che ci fa Buddha in mezzo alla Madonna e Gesù Cristo?” chiede uno dei ragazzi. “Più so mejo è”, risponde la donna. “Almeno qualcuno mi ascolta”. Il corto vive dell’apporto, alla fotografia, di Daniele Ciprì. «Io e Daniele Ciprì dovevamo girare tempo fa un altro corto. Per questo progetto ha voluto esserci, ha fortemente voluto farlo. Quando ha visto un ragazzo africano che tocca quella tematica è stato conquistato» ci racconta Saleh. Gli diciamo come il suo film ricordi L’Odio. «L’Odio è un film in bianco e nero che adoro. Ma questo film è puro Neorealismo, Quando Kassowitz ha girato L’Odio ha parlato italiano. Per me è devastante il cinema del Neorealismo, e con questo bianco e nero ho voluto proprio fare un omaggio a quel mondo, e a Pier Paolo Pasolini. Ho detto a Daniele Ciprì che avrei voluto fare questo film in bianco e nero e lui mi ha chiesto una motivazione. E ho detto proprio che era legato al Neorealismo. In tanti, alla produzione, volevano il colore, ma io ho detto: io voglio questo. E Daniele, un maestro, poi mi ha detto: hai salvato il corto. Il bianco e nero è un’altra musica».

 

Foto di Luca Carlino.

 

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